Abbozzato 9 anni fa a Bali e subito messo in cantiere l’anno seguente nel 2012 dal vertice Asian in Cambogia, dopo 46 riunioni negoziali e 19 riunioni ministeriali, il 15 novembre scorso è giunto al traguardo il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership). Il mega accordo di libero scambio comprende 15 Stati – tutti i 10 membri dell’ASEAN (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Tailandia, Vietnam), Australia, Cina, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda – e coinvolge circa 1/3 della popolazione del pianeta e circa il 30% del Pil mondiale, cifre destinate a salire con la probabile adesione di altri paesi asiatici.
“Dopo 8 anni di trattative con sangue, sudore e lacrime”, come sottolineato dal Ministro del Commercio della Malesia, Mohamed Azmin, (fonte channelnewsasia/reuters), l’accordo è stato virtualmente firmato dai ministri in video conferenza, a conclusione del vertice annuale Asean di 4 giorni, tenuto in Vietnam. Entrerà in vigore non appena sarà ratificato da almeno 6 paesi Asean e 3 non Asean.
L’intento è quello di implementare un modello di integrazione e cooperazione regionale, che certo non nasce dal nulla, ma trova radici profonde nella interdipendenza economica sviluppata dall’economia globalizzata tra i diversi paesi della regione. Ciò ha consentito, nonostante le differenze di sviluppo economico tra un paese e l’altro e i colpi violenti subiti per la pandemia Covid-19, di trovare compromessi di reciproco vantaggio comune, accelerando una risposta competitiva regionale alle pressioni che la pandemia ha sollevato in Europa, che spingono verso una ri-localizzazione produttiva, per garantire la continuità e la sicurezza dei rifornimenti al grande mercato di consumo europeo.
Un grande accordo di agile peso
Il RCEP nonostante la sua enorme dimensione, è più leggero dell’accordo CPTPP o della stessa Unione Europea, non stabilendo standard unificati nel lavoro e ambiente, e non impegnando i paesi ad aprire servizi o aree particolari nelle loro economie. Nei prossimi anni ridurrà progressivamente le tariffe doganali, fino alla loro eliminazione per almeno il 92% delle merci, e la burocrazia, e introdurrà regole comuni sulla origine dei prodotti per facilitare le catene di approvvigionamento internazionali e il commercio all’interno della regione. Inoltre, tra i vari punti, limiterà la partecipazione straniera in almeno 50 campi, tra cui servizi professionali, telecomunicazioni e servizi finanziari. Stabilendo regole commerciali faciliterà investimenti e altre attività, proponendosi come piattaforma per il recupero economico post-Covid dell’indo-pacifico.
La pandemia che ha colpito duramente tutta la regione è stato un fattore di accelerazione dei compromessi che sostengono l’accordo, basato sui principi di integrazione e interdipendenza che assicurano pace e prosperità. Permetterà alla Cina di investire nei mercati regionali e agli altri paesi RCEP di accedere al vasto mercato cinese, spingendo anche ad una maggiore integrazione globale e alla ripresa economica, attraverso lo sfruttamento dei vantaggi comparativi, argomenti che i paesi RCEP metteranno all’ordine del giorno nei prossimi incontri tra APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e G20.
Come sintetizzato dal Primo Ministro di Singapore, Lee Hisien Loong, il RCEP “è una importante pietra miliare“ ed “un importante passo per il mondo, in un momento in cui il multilateralismo sta perdendo terreno e la crescita globale sta rallentando”, che “contribuirà ad arginare la marea contro la globalizzazione”.
Gli Usa e il Giappone
Un messaggio anche per gli Stati Uniti del neopresidente Biden, verso i quali i paesi RCEP sono aperti per una “ stretta consultazione dopo che si saranno sistemati”. Tuttavia, l’impostazione sul commercio e su altro della nuova amministrazione Biden è ancora una nebulosa, che non lascia alm momento pronosticare fino a che punto respingerà la politica American First di Trump, che ha diserbato gli accordi multilaterali, favorendo gli accordi individuali, causa di ulteriore instabilità e di conflitti.
Nel 2017, all’indomani del suo insediamento alla Casa Bianca, Trump aveva ritirato gli Stati Uniti dall’accordo di Partenariato Trans-Pacifico TPP stabilito tra 12 Stati, accusandolo con una feroce campagna mediatica di trasferire i posti di lavoro statunitensi all’estero. Un’uscita di scena plateale, che invece di rompere le alleanze ne ha incoraggiate di nuove. Nel 2018 gli 11 paesi del TPP hanno dato vita senza gli Usa, all’Accordo globale e progressivo per il partenariato trans-pacifico CPTPP, che mette insieme Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam (Il RCEP include 6 di questi paesi), ma soprattutto ha orientato diversamente il Giappone.
Nonostante gli Usa siano il suo principale partner commerciale, il Giappone si è focalizzato sulla riuscita del RCEP, che include paesi che figurano tra i primi 10 del suo interscambio commerciale, quali Cina, Corea del Sud, Australia, Vietnam, Singapore Tailandia.
Con la firma del RCEP per la prima volta il Giappone ha sottoscritto un accordo con la Cina, suo secondo partner commerciale, e con la Corea del Sud, avviando un avvicinamento storico. I media giapponesi hanno riportato la notizia che alla ratifica del RCEP il Giappone, ad esclusione 5 merci ritenute fondamentali tra cui riso e grano, rimuoverà i dazi per il 56% delle merci importate dalla Cina e per il 49% dalla Corea del Sud e probabilmente rimuoverà il 61% dei dazi per i prodotti complessivamente importati da Asean, Nuova Zelanda, Australia.
Guardando al I trimestre 2020, mentre per la pandemia i traffici con l’Europa subivano contrazioni, quelli Cina-Asean incrementavano del 6% rispetto al 2019, con 140 miliardi di dollari di scambi bilaterali, rendendo l’Asean primo partner commerciale della Cina.
L’India e il RCEP
Un capitolo a parte invece riguarda l’India, che dopo 7 anni di negoziati, a novembre dell’anno scorso, ha deciso di ritornare sui propri passi e lasciare le trattative RCEP, temendo che l’eliminazione dei dazi potessero dare spazio alla concorrenza straniera, come ha già sperimentato in passato. L’India in ambito RCEP non ha trovato un compromesso soddisfacente per i suoi produttori di latte e formaggi che temono la concorrenza australiana e neozelandese, né per la sua industria automobilistica che teme l’import da tutta la regione, né per frenare l’ondata di manufatti dalla Cina o per governare l’e-commerce.
Con un forte deficit commerciale con i paesi RCEP che nel 2019 ammontava a 105 miliardi di dollari di cui 54 con la Cina, l’India aveva proposto diversi livelli tariffari per la Cina, onde tutelare la propria industria da importazioni a basso costo, mentre sulla liberalizzazione dell’IT, dove è competitiva, gli altri paesi si erano opposti. Secondo paese più popoloso al mondo, con tassi precovid di crescita pil superiori a quelli della Cina anche se molto basso a livello pro capite, è un partner molto importante per il Giappone, che vi esporta 11 miliardi di dollari di merci all’anno.
Gli import indiani spostano traffici imponenti, come quello dei pannelli solari, che il paese sta promuovendo contrastandone contemporaneamente l’import dalla Cina, con l’imposizione di un dazio del 25%, che ha spostato la domanda su Vietnam e Tailandia, determinando un aumento del loro export di pannelli solari rispettivamente di 5 e 26 volte. Ciononostante, il RCEP lascia porte spalancate ad un eventuale ripensamento di Nuova Delhi.
Le contese che il RCEP potrebbe finire col redimere
Anche i dazi punitivi per miliardi di dollari che hanno colpito l’interscambio Cina-Usa, accelerando la crescita dei flussi commerciali e degli investimenti all’interno dell’Asia, già iniziati 10 anni fa, all’indomani della grande crisi internazionale del 2008, hanno contribuito alla definizione conclusiva del RCEP, che potrebbe ricomporre contenziosi esplosi per le politiche anticinesi statunitensi. È il caso dell’Australia, coinvolta politicamente dagli Stati Uniti nella contesa, nonostante la Cina sia il suo primo partner commerciale con 172miliardi di dollari di interscambio, con un valore positivo di 51 miliardi per l’Australia. Ma potrebbe avere influenza anche sulla disputa per la sovranità nel Mar Cinese Meridionale, i cui fondali sono pieni di risorse energetiche, tra Cina, Malesia, Vietnam, Brunei e Filippine, su cui gli Stati Uniti sono intervenuti pesantemente con sanzioni e dispiegamento di forze militari per “garantire libertà e apertura dell’Indo-Pacifico”. In quel mare la Cina ha costruito isole artificiali difensive, per le quali gli Usa hanno sanzionato 24 aziende cinesi, accusate di aver contribuito alla loro realizzazione.
Recentemente, come dichiarato da James Foggo nel corso di un dibattito organizzato da Limes, tra Stati Uniti e Cina è stato firmato un Memorandum di intesa che abbassa la soglia della disputa nel Mar Cinese Meridionale, intermediata tra gli altri da Barak Obama. Un passo importante per la distensione in quel mare regionale di portata internazionale.
Taiwan guarda agli USA
Anche Taiwan, la Formosa rivendicata dalla Cina, avanza richieste di sovranità sul Mar Cinese Meridionale, grande esclusa dal RCEP, che in alternativa si sta preparando per avviare le procedure di adesione al CPTPP insieme a Gran Bretagna e Tailandia. Il RCEP non la preoccupa perché il 70% del suo export verso quei paesi sono costituiti principalmente da prodotti elettronici, già esenti da dazi, sperando invece (da fonte Reuters) di giungere alla firma di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, suo principale sostenitore e venditore di armi.
Giovanna Visco
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