Cina: il primo reattore nucleare pulito e la lotta al cambiamento climatico

La Cina sta ultimando il prototipo del primo reattore nucleare al mondo a sali fusi, sviluppato dallo Shanghai Institute of Applied Physics (SINAP). Funzionerà con sali fusi di torio, elemento che, rispetto all’uranio, si raffredda senza richiedere acqua, solidifica rapidamente quando esposto all’aria e presenta un rischio contaminazione molto più basso, producendo quantità inferiori di elementi radioattivi a vita lunga, con livelli di pericolosità ben inferiori, e scorie più facilmente smaltibili. Infine, è molto più abbondante ed economico dell’uranio.

La realizzazione di un reattore a sali fusi era inseguito dagli scienziati sin dal 1946, quando ne fu messo a punto il concetto per l’aeronautica statunitense, allo scopo di creare un jet supersonico a propulsione nucleare. Tuttavia, problemi di corrosione causata dal sale caldo e di fissione senza aggiunta di uranio, ne avevano fatto arenare la ricerca sperimentale.

L’apparire sulla scena mondiale del dramma climatico e l’urgenza di cambiare il registro energetico delle attività antropiche, hanno rianimato la ricerca sul torio e sui reattori nucleari di nuova generazione: la sperimentazione cinese non è isolata, ed attualmente sono in corso diverse ricerche sul campo, funzionali al processo di transizione energetica, tra cui il reattore statunitense raffreddato al sodio, Natrium, che prevede un impianto pilota nel Wyoming, finanziato da Bill Gates e Warren Buffett.

Il prossimo settembre inizieranno i primi test cinesi del prototipo da 2 megawatt, a cui seguirà la costruzione del primo reattore commerciale entro il 2030, nella città desertica di Wuwei, nella provincia di Gansu, crocevia strategico nei pressi dello storico corridoio Hexi, che collega la Cina Centrale a quella Occidentale e al resto dell’Asia Centrale. Il reattore avrà 3 metri di altezza e 2,5 m di larghezza e sarà collegato a sistemi di turbine a vapore, per generare una potenza elettrica pari a 100 megawatt, sufficiente a soddisfare, in modo efficiente, flessibile ed economico, il fabbisogno energetico di circa 100.000 persone, tre requisiti chiave della transizione verso l’energia pulita.

I reattori nucleari al torio, che dopo Wuwei saranno costruiti prevalentemente nelle zone desertiche della Cina Occidentale e in paesi aderenti alla Belt and Road Initiative (BRI), fanno parte del percorso cinese per raggiungere le zero emissioni di carbonio entro il 2060, obiettivo fissato dal presidente Xi Jinping. Esso include massicci investimenti anche in energia solare, eolica ed idroelettrica. Quest’ultima fonte, tuttavia, è oggetto di molte opposizioni, per il suo impatto negativo sugli habitat naturali, drenando e deviando massicce quantità di acqua di vasti territori. A giugno scorso in Cina è entrato in esercizio il secondo impianto idroelettrico più grande al mondo in termini di capacità, dopo quello delle Tre Gole situato più a valle sul Fiume Azzurro: la diga di Baihetan, sul fiume Jinsha, affluente del Fiume Azzurro, con una capacità produttiva di 16 gigawatt (GW), che sarà trasferita con linee di trasmissione elettrica ad altissima tensione (UHV) in Cina Orientale, per sopperire ai picchi della domanda nelle provincie di Jiangsu e di Zhejiang, entrambi popolose e molto sviluppate economicamente.

La lotta al cambiamento climatico è ormai entrata nell’agenda cinese degli obiettivi prioritari: il paese, analogamente al resto del mondo, sta subendo eventi meteorologici estremi. Il più recente un mese fa, che ha coinvolto la provincia di Henan, sede di estese coltivazioni agricole e importanti industrie tecnologiche, come la Faxconn, che produce componentistica elettronica per giganti come Apple. Tre giorni di forti piogge hanno colpito gli oltre 12 milioni di abitanti della capitale Zhengzhou e provocato la morte di decine di persone, circa 400.000 evacuazioni e perdite economiche per 10 miliardi di dollari.

Un rapporto della statunitense Rhodium Group calcola che nel 2019 la quota di CO2 prodotta dalla Cina abbia riguardato per la prima volta il 27% (oltre 14 giga tonnellate) delle 52 giga tonnellate complessivamente immesse a livello mondiale nell’atmosfera, seguita da Stati Uniti (11%), India (6,6%), UE-27(6,4%). Tuttavia, il livello pro-capite di emissione di gas serra del principale sistema di approvvigionamento del mondo globalizzato che conta 1,4 miliardi di abitanti, sebbene risulti triplicato negli ultimi due decenni, si posiziona a 10,5 tonnellate, al di sotto della media dei paesi Ocse e di quella degli Stati Uniti, che con 17,6 tonnellate pro-capite detengono il primo posto delle emissioni pro-capite al mondo.

Il settore cinese a maggior emissione di carbonio è quello siderurgico con quota 15%, che il governo intende abbattere almeno del 30% entro il 2030. Come riporta South China Morning Post, circa 240 imprese siderurgiche, che rappresentano il 60% della capacità produttiva dell’intero settore cinese, stanno ultimando la trasformazione a bassissima emissione dei loro impianti, mentre alcune province hanno imposto alle acciaierie di frenare la produzione per ridurne le emissioni.  

Secondo un recente rapporto CREA-GEM (Centre for Research on Energy and Clean Air di Helsinki e Global Energy Monitor di San Francisco) senza lo spostamento permanente degli investimenti dal carbone verso un mix costituito da fonti a zero emissioni, produzioni di acciaio a bassa emissione e idrogeno verde, la Cina non potrà vincere la sua lotta contro il cambiamento climatico. Il rapporto calcola che nella prima metà del 2021 sono state annunciate 35 milioni di tonnellate di nuova capacità di produzione cinese di acciaio a carbone, più del totale dello scorso anno, ma nel contempo aumenta la produzione cinese di energia pulita: China Electricity Council (CEC), prevede per la prima volta nel corso dell’anno il superamento capacità delle fonti energetiche non fossili rispetto a quelle a carbone in termini di capacità. Un andamento confermato anche dagli investimenti delle principali compagnie elettriche cinesi nel primo trimestre 2021, per oltre il 90% in combustibili verdi. Wood Mackenzie, società britannica di consulenza nel settore delle risorse naturali, stima che nei prossimi cinque anni la Cina aggiungerà 430 gigawatt di nuova capacità energetica solare ed eolica.

La Cina sta affrontando il dilemma storico che riguarda tutta l’economia mondiale, giostrandosi  tra il raffreddare i settori ad alta intensità di emissioni e lo stimolare progetti immobiliari e infrastrutturali che inevitabilmente aumentano la domanda di acciaio e di energia industriale. Nuovi modi e tecnologie per stimolare l’economia sono diventati interessi irrinunciabili per le province e le aziende cinesi, così come per tutti i paesi del mondo, perché nessuno è immune ai cambiamenti climatici, e a tutti dovrebbe essere ormai chiaro che abbandonare progetti ad alto inquinamento e alto consumo di energia e di risorse naturali è una scelta non più opinabile.

Il mutamento in corso si riflette anche sugli investimenti esteri della Cina, in particolare nei 138 paesi della Belt and Road Initiative (Bri). Nonostante nel 2020 gli investimenti Bri siano scesi complessivamente a 47 miliardi di dollari, flettendo del 54% per la pandemia Sars Cov-2, quelli energetici sono passati dal 38% del 2019 al 57% nel 2020. Per la prima volta la maggior parte di essi ha riguardato energia rinnovabile, e paesi come Qatar, Oman ed Egitto hanno ricevuto dalla Cina il 100% dei finanziamenti in energia verde.

Come registrato dall‘International Institute of Green Finance (IIGF) e riportato da Bloomberg, nel primo semestre 2021, per la prima volta la Cina non ha finanziato progetti a carbone. Nei primi sei mesi dell’anno i finanziamenti BRI hanno superato 19 miliardi di dollari, in calo del 30% rispetto al primo semestre 2020, per il 65% investiti nei settori trasporti ed energia. Le risorse destinate all’energia per il 37% hanno riguardato il gas naturale, 30% petrolio e 28% energia idroelettrica, mentre quelle destinate all’energia verde sono diminuite del 90%.

Ciononostante, la Cina sta mettendo in campo politiche di sostenibilità ambientale per i suoi investimenti esteri, che trovano nell’incerto andamento del Pil mondiale, che sta decelerando la domanda di elettricità, una ulteriore spinta verso i progetti di energia rinnovabile, di fatto meno impegnativi, più facilmente bancabili e realizzabili in tempi rapidi.

 A fine 2020 la BRI International Green Development Coalition (BRIGC), una piattaforma di dialogo politico, conoscenza e scambio di tecnologie verdi per lo sviluppo verde e sostenibile, istituita nel 2019 dal Ministero dell’ecologia e ambiente cinese e partecipata da oltre 130 soggetti, ha pubblicato il Green Development Guidance for BRI Project Baseline Study Report. La Guida fornisce un quadro trasparente per classificare i progetti BRI in tre categorie, rosso, giallo e verde, in base all’impatto su clima, inquinamento e biodiversità. Recentemente, la banca centrale ha iniziato a classificare le operazioni finanziarie degli istituti di credito, mentre le banche statali cinesi hanno ricevuto l’input di ritirare gradualmente i finanziamenti di progetti che impiegano il carbone, combustibile che ricade nella classificazione rossa. A giugno scorso, l’Industrial and Commercial Bank of China Ltd ha abbandonato il finanziamento di una centrale elettrica a carbone da 3 miliardi di dollari nello Zimbabwe, mentre non è ancora chiaro se sarà ritirato anche quello di una centrale elettrica a carbone in costruzione in Turchia, come chiesto l’anno scorso da oltre 20 organizzazioni non governative.

In tutti i casi, la chiara volontà della Cina di allontanarsi dai progetti a carbone nei paesi BRI, può contribuire a dare slancio alla politica climatica globale, in vista del COP26 il prossimo novembre, a Glasgow, in Scozia. La Conferenza annuale dell’Onu sul clima dovrà riprendere la discussione sull’impiego del carbone, sul quale l’ultimo G20 non è riuscito a raggiungere un accordo per il suo disimpiego.

Rinunciare al carbone è uno degli aspetti cruciali per raggiungere l’obiettivo dell’accordo di Parigi del 2015, che limita l’aumento della temperatura mondiale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Un obiettivo che disastri naturali e sconvolgimenti climatici sempre più frequenti ci urlano che non può ulteriormente aspettare.

                                                                                                 Giovanna Visco

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