Orizzonte di autunno caldo in Europa

Il costo della vita corre e i salari si restringono, mentre i profitti di molti gruppi imprenditoriali continuano a crescere. È sempre più nitido quanto un’equa distribuzione della ricchezza sia il punto di crisi più alto del dopo pandemia Covid-19, contraddistinto da una forte inflazione, causata principalmente da speculazioni su beni e servizi, dalle sanzioni collegate al conflitto russo-ucraino e da interruzioni e congestionamenti lungo le catene degli approvvigionamenti anche per effetto del cambiamento climatico. Forti venti di sciopero stanno attraversando l’Occidente, che presagiscono un autunno traboccante di rivendicazioni in molti settori. La maggioranza dei lavoratori occupati sta lottando contro corte coperte salariali e per spuntare condizioni di lavoro decenti. Fra questi, i lavoratori dei trasporti e della logistica, la cui astensione dal lavoro, ultima spiaggia quando reiterate richieste si perdono nel vuoto, ha le ricadute maggiori sul sistema economico globale. I recenti scioperi in diversi porti europei sono il segno più evidente di quanto la liberalizzazione e la privatizzazione stiano bruciando l’economia reale, che pare guidata da un bulimico istinto di accumulazione, indifferente alla vita e alla sopravvivenza di milioni di famiglie, oggi strozzate dal debito e dal giogo speculativo degli alti dividendi.   

Circa 12.000 portuali tedeschi del Mar del Nord a luglio scorso hanno compiuto il più grande sciopero portuale degli ultimi 40 anni, bloccando hub strategici come Amburgo, Bremerhaven e Wilhelmshaven, per rivendicare un nuovo contratto collettivo con salari non al di sotto del costo della vita. Il risultato è stato  la ripresa  delle trattative tra il sindacato Ver.di e la  Zentralverband der Deutschen Seehafenbetriebe ZDS, l’associazione centrale delle società portuali tedesche, giunta ad un accordo al decimo round di contrattazione, alla vigilia della decadenza della  moratoria del tribunale tedesco a cui si era rivolto la parte datoriale per far cessare gli scioperi, spingendo i lavoratori a reiterare la vertenza tagliando le disponibilità sui turni extra e di fine settimana. L’esito definitivo dell’accordo si saprà  il prossimo 5 settembre, con la riunione della commissione per la contrattazione collettiva, ma la portata dello sciopero è stata molto più vasta del previsto, incrociandosi con la forte siccità del fiume Reno causata dal cambiamento climatico. La scarsa profondità delle  acque fluviali ha  ridotto l’utilizzo delle chiatte, mandando in tilt la logistica delle merci. Lo sciopero portuale, manifestandosi in questo contesto, ha avuto un effetto amplificativo del congestionamento, che  secondo alcuni analisti potrà essere districato solo nel primo trimestre 2023, ricadendo fino sui Paesi Bassi, in particolare sul porto di Rotterdam, già in tensione logistica per la pandemia e destinatario principale dei traffici tedeschi momentaneamente dirottati.

Mentre nei porti tedeschi campeggiava il conflitto sociale, contemporaneamente nel Regno Unito l’inflazione, superando il 10%,  toccava il suo massimo da 40 anni, che la Banca d’Inghilterra prevede in salita al 13% entro la fine dell’anno, trascinando il paese in una lunga recessione. I prezzi dei generi alimentari e dell’energia si sono impennati, mentre quelli delle abitazioni in agosto hanno spinto l’inflazione al 12,4%. Il potere d’acquisto dei salari è così precipitato, alimentando una raffica di scioperi che hanno interessato bus;  ferrovie, il cui sciopero nel penultimo fine settimana di agosto ha ridotto la circolazione a un solo un treno merci su cinque,  sollevando preoccupazioni sulla tenuta della catena degli approvvigionamenti; i servizi postali della Royal Mail con uno sciopero di quattro giorni; il gigante delle telecomunicazioni BT, che ha affrontato la prima astensione dal lavoro dopo decenni; i magazzini Amazon; gli avvocati penalisti, i netturbini e per la prima volta nella storia britannica gli infermieri.

Ma lo sciopero che più di tutti avrà effetti prorompenti travalicando i confini,  è quello indetto dai portuali di Felixstowe, principale porto container del Regno Unito di proprietà della CK Hutchison Holding Ltd di Hong Kong, situato sulla costa orientale dell’isola. Felixstowe, che movimenta oltre 4 milioni di teu all’anno, circa il 50% del traffico container del paese, sta affrontando le conseguenze di uno sciopero di otto giorni, il primo dal 1989, iniziato lo scorso 21 agosto, dopo il fallimento delle trattative per l’adeguamento salariale tra il sindacato Unite e la parte datoriale.  Quasi 2.000 dockers, respingendo la risicata proposta della Felixstowe Dock and Railway Company per un aumento salariale intorno all’8%, livello ben inferiore al tasso di inflazione, hanno incrociato le braccia, dopo l’approvazione per il 92% della stragrande maggioranza dei lavoratori che hanno partecipato al referendum (82%) .

Come riporta la CNBC, Sharon Graham, segretario generale di Unite, ha affermato “ Potrebbero offrire ai lavoratori di Felixstowe un aumento di stipendio dignitoso, ma è  chiaro che entrambe le aziende hanno dato la priorità ai profitti e ai dividendi multimilionari, piuttosto che pagare ai propri lavoratori uno stipendio dignitoso”.

Fino a prima della pandemia, le compagnie marittime rispondevano ai blocchi portuali dirottando le navi su altri porti senza troppi intoppi. Ma adesso che i porti alternativi soffrono già di congestione, tale strategia si traduce in ulteriore allungamento dei tempi di consegna e aumento dei i costi logistici, ormai non più assorbibili, con il risultato inevitabile di ulteriori rincari dei prezzi al consumo.

Secondo Project44, l’impatto dello sciopero di Felixstowe ricadrà sulle catene di approvvigionamento  di tutta Europa. Il conflitto sociale nei porti europei ha causato in porti come Rotterdam e Amburgo lunghe code navi al largo delle coste, con un aumento del tempo medio di consegna del carico di 27 giorni per la rotta transatlantica a luglio scorso, sfiorando il massimo di 29 giorni di inizio anno. Secondo Crane Worldwide Logistics, lo smaltimento della congestione scaturita da Felixstowe richiederà diversi mesi. Le prime vittime saranno i prodotti destinati agli scaffali per le festività di Halloween e di Natale, ammesso che la gente abbia sufficiente disponibilità economica per acquistarli, mentre l’interscambio commerciale Stati Uniti-Regno Unito il cui principale gate è il porto di Felixstowe ne uscirà piuttosto segnato.

Secondo il CAx, Container Availability Index, elaborato da Container XChange, lo sciopero fa ascendere il porto di Felixstowe ai più alti livelli europei di congestione, causata soprattutto dalla difficoltà di smaltire i box vuoti dalle aree di stoccaggio. Come osserva Container XChange, il rischio che  la pressione dello sciopero si riversi sulle reti dei vettori per i servizi intraeuropei e Asia-Europa è molto alto. In termini economici, MDS Transmodal ha stimato in 4,7 miliardi di dollari il valore dei volumi complessivamente colpiti dallo sciopero.

Dall’altra parte dell’Inghilterra, sulla costa occidentale, si prepara allo sciopero anche il quarto porto del paese in ordine di importanza, Liverpool,  gestito dalla MDHC, una controllata del Peel Ports Group residente nel paradiso fiscale dell’isola britannica di Man. La quota di maggioranza del gruppo è detenuta dal suo presidente, il miliardario John Whittaker. Dai dati presso la Companies House del Regno Unito, diffusi da Riviera, il profitto registrato da Peel Ports Group nell’anno fiscale aprile 2020-marzo 2021 è ammontato a 141 milioni di sterline (oltre 166 milioni di euro), recuperando le perdite subite per la brexit e per la pandemia. Questo nonostante il calo degli incassi finanziari, scesi a 595 milioni di sterline da 792 milioni dell’anno precedente,  causato dalla pandemia e da mancati incassi per la cessione di una società di servizi marittimi. Il gruppo ha dimezzato il numero dei suoi occupati, passati da 3.135 a 1.612 addetti, nonostante profitti notevoli, di quasi 100 milioni di sterline in più rispetto all’esercizio 2019-2020, che si era chiuso in perdita. MDHC nel 2019 aveva anche incassato finanziamenti pubblici  per contrastare i potenziali contraccolpi causati dall’uscita del Regno dall’UE. Ora gli oltre 500 portuali di Liverpool sono decisi a rivendicare salari equiparati al costo della vita e il rispetto dell’accordo del 2021, disatteso dall’azienda. Lo faranno con lo sciopero, di cui ancora non si conoscono le date, votato dal 99% dei portuali che hanno voluto partecipare al referendum sullo sciopero, pari al 90% dell’intera platea, per brecciare lo spesso muro alzato dalla azienda.

Anche in Italia, in cui da tempo molti lavoratori battagliano contro lo sfruttamento e la precarietà dilaganti, alcuni porti cominciano ad evidenziare segni di crisi sociale. È il caso di Livorno e di Piombino, dove i portuali hanno dato mandato ai sindacati confederali di indire 10 giorni di sciopero a partire dal 12 settembre, se le richieste su salari, sicurezza e salute cadranno nel vuoto. Quel che si sta palesando, spingendo alla vertenza, è la distorsione del CCNL Porti, che interessa diverse realtà portuali.  Principalmente si manifesta con la compressione dei salari, mediante la pratica del sotto inquadramento e con “una alta rotazione del personale in ingresso con contratti a termine che, spirati i termini, vengono sostituiti con altri lavoratori a tempo determinato”, come si legge nella nota stampa sindacale. Altri elementi di precarizzazione sono rintracciabili nell’organizzazione del lavoro, che deve essere verificata per l’alto utilizzo del lavoro notturno, e nel livello salariale, i cui aumenti contrattuali sono stati erosi dall’inflazione  a livelli insostenibili. A completare il quadro, la scarsa sicurezza per il mancato impiego dei segnalatori, l’utilizzo compulsivo dello straordinario e le interferenze tra sbarco passeggeri e la movimentazione dei rotabili, mentre restano critiche le condizioni di lavoro all’interno dei garage delle navi roro, tra temperature elevate ed esposizione alle polveri sottili. Oltre a questo, nel porto di Piombino, si aggiungono la crisi dell’industria siderurgica e l’incertezza sullo sviluppo futuro, che i sindacati chiedono di integrare in una logica di sistema.

Ma le acque agitate italiane non sono solo tirreniche. Nell’Adriatico il porto di Trieste sta lottando contro la decisione del gruppo finlandese di chiudere il fiorente stabilimento produttivo della Wartsila Italia a Bagnoli della Val Rosandra, parte importante di una specializzazione strategica del territorio e del  porto. Nel  solco di una rinnovata solidarietà, che i tempi odierni stanno rendendo sempre più necessaria, i sindacati dei portuali coinvolti nella movimentazione e nel rizzaggio dei  motori prodotti dallo stabilimento giuliano, hanno indetto lo  sciopero a oltranza, per bloccare l’imbarco di 12 motori destinati alla Daewoo, in attesa che il Mise riconvochi il tavolo di confronto prima del 14 settembre, data di scadenza della procedura di licenziamento dei 451 operai dell’impianto.

Le gravi difficoltà attuali, condizionate fortemente dalle concentrazioni oligarchiche economiche e finanziarie e dai conflitti geopolitici, confermano quanto la distribuzione della ricchezza unitamente al cambiamento climatico debbano essere urgentemente governati, uscendo definitivamente dall’illusione che il libero mercato sia dotato dei valori e della intelligenza necessari alla vita degli esseri umani e del pianeta. 

                                                                                                                                    Giovanna Visco

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d