Sempre più nel dibattito degli organismi internazionali del settore marittimo ricorre il tema della gente di mare, a cui questo anno è stata dedicata la giornata mondiale del mare (World Maritime Day). Da fonte IMO (International Maritime Organization) attualmente a bordo delle navi sono impiegati 1,5 milioni di marittimi, che costituiscono l’offerta di un mercato del lavoro internazionalizzato e sempre più specializzato. Gli equipaggi delle navi oggi affrontano in mare aperto le sfide tecnologiche, dimensionali e commerciali del trasporto marittimo, che in pochi anni è mutato profondamente con la netta divisione della proprietà degli asset dalle società armatoriali. La separazione tra proprietà e gestione commerciale ha accelerato il processo di concentrazione e controllo delle flotte mondiali in poche mani e introdotto pratiche finanziarie speculative, tra cui l’utilizzo di strumenti “creativi” sui carichi trasportati.
Il motore di sviluppo di questo modello è stata la forte interdipendenza di produzione e consumo fra opposte aree del mondo negli ultimi decenni, caratterizzando con bolle e crack i diversi segmenti dell’economia derivata del trasporto marittimo, con particolare evidenza nei traffici delle rinfuse.
L’insieme di questi fattori ha avuto un impatto diretto sui meccanismi di ricerca e reclutamento della gente di mare e sulla vita a bordo, in termini di compiti e mansioni e di organizzazione del lavoro, che a loro volta si combinano molto flessibilmente e frammentariamente con le peculiarità specifiche della navigazione recepite dalla normativa ai vari livelli, con la sovranità di bandiera delle navi e con regole ed organizzazioni di porti, terminal e terminali di imbarco/sbarco. Il risultato è una moltitudine disituazioni e trattamenti diversi, che rendono l’offerta molto debole sotto il profilo dei diritti contrattuali rispetto ad una domanda che ancora troppo diffusamente tende a comprimerne il più possibile il costo, e non solo in termini salariali, aprendo una falla enorme anche per quel che riguarda le questioni della sicurezza della navigazione in tutti i suoi aspetti. In base all’andamento negli ultimi 50 anni del trend della flotta mondiale, che entro il 2030 ha un orizzonte di crescita del 70%, l’IMO prevede nel mercato del lavoro della gente di mare una forte spinta in avanti della domanda. Solo per quel che riguarda il corpo ufficiali impiegato a bordo delle navi, il fabbisogno di reclutamento salirà dai 500.000 di oggi a 850.000 ufficiali. Al netto di coloro che intanto usciranno dal mercato, ciò significa che il traporto marittimo per sostenere il commercio internazionale ha bisogno di 40.000 nuovi ingressi all’anno, per poter giungere al soddisfacimento del fabbisogno di 600.000 nuovi ufficiali entro il 2030. Alla luce di ciò, potrebbe forse essere utile anche una rilettura del gigantismo navale.
Incoraggiati dalla concentrazione commerciale delle navi, dall’ingresso nel mercato di società armatoriali di nessuna esperienza marittima, dalla crescita numerica delle flotte, dalla difficoltà di comporre equipaggi spesso interrazziali i cui membri siano tra loro compatibili, sono fiorite nel mondo società di manning che forniscono agli armatori equipaggi completi certificati a basso costo, reclutando personale da addestrare nei paesi emergenti, che riconoscono particolari agevolazioni all’insediamento di questa attività che crea occupazione e reddito – le rimesse dei marittimi sono territorialmente una voce importante di reddito e spesso a livello statale anche di valuta. Tuttavia, la produzione seriale di figure professionali a basso costo introduce una profonda distorsione sul piano dell’offerta della gente mare.
Non avendo un livello di saturazione, i centri del brokeraggio di uomini determinano una concorrenza al ribasso, esondando ben al di là del fabbisogno scaturito dall’introduzione di nuove navi, estendendosi fino alla sostituzione dei marittimi attivi quando le bandiere di Stato lo consentono. Un aspetto sul quale ancora non si è riflettuto abbastanza e che può avere effetti rovinosi anche molto ravvicinati nel tempo proprio in Italia, se passerà la liberalizzazione che svincola la tonnage tax (fiscalità forfettaria degli armatori italiani) dalla nostra bandiera – che almeno obbliga il cabotaggio ad arruolare marittimi italiani o comunitari – per consentire alle navi di altre bandiere europee, le cui società di navigazione abbiano organizzazione stabile in Italia, di poter usufruire della tonnage tax italiana e viceversa alle navi di bandiera italiana di andare sotto un’altra bandiera di un paese comunitario, conservando la tonnage tax italiana.
Da dati Confitarma, il settore del cabotaggio italiano traghetti occupa 11.000 marittimi per il 92% quasi interamente italiano e per l’8% extracomunitario imbarcato su tratte internazionali, ma questi dati potrebbero essere stravolti per l’intervento attivo di altre bandiere europee molto aggressive (portoghese, belga, danese, maltese ma anche inglese), che nel 2014 sono cresciute sensibilmente per le facilitazioni che offrono all’armamento, su cui sarebbe opportuno in ambito UE una profonda riflessione comparativa. Ancora una volta il rischio è che si tenda a fare economia nel modo più semplice, semplificato e vecchio del mondo, senza affrontare i veri nodi di una concorrenza internazionale evoluta, basata sullo sviluppo di parametri di qualità e di efficienza appoggiati da normative nazionali, comunitarie e internazionali che mettano in primo piano sicurezza e occupazione, cioè il bene comune. Attualmente dai dati ILO le Filippine sono il paese che più di altri immette marittimi certificati sul mercato internazionale. Si stima che nel mondo 1 marinaio su 5 sia filippino. In generale, i contratti di lavoro sono di 10 mesi, prevedendo due imbarchi di 4 mesi consecutivi intervallati da due mesi di riposo nei quali non si percepisce salario. Un viaggio Asia-Europa, con tempo buono e se non insorgono problemi nel corso della navigazione, può durare in media circa 2 mesi. Dal Canada all’Australia si naviga in pieno oceano per quasi un mese oppure si può stare all’ancora per il congestionamento del porto anche quattro mesi in attesa di carico/scarico della nave. Il cabotaggio invece non comporta lunghe percorrenze in mare aperto, ma un’altissima frequenza di sbarchi/imbarchi che richiedono un intenso lavoro procedurale, manuale per la bassa forza e documentale per gli ufficiali.
Ma al di là delle differenze di rotta e servizi, i mutamenti della terraferma tradotti a bordo nave in tecnologia, gigantismo navale e internazionalità dei viaggi, ha reso il lavoro della gente di mare molto più complesso e crescentemente qualificato a tutti i livelli, sia per le navi cargo che per quelle passeggeri o da crociera. Indipendentemente dal ruolo che si occupa, lavorare a bordo di una nave è ormai una professione post moderna di grande know how strategico per le economie nazionali, incardinata su una formazione professionale basica di conoscenza specifica sulla quale costruire l’esperienza pratica della navigazione. E non solo. Se è vero che la sicurezza è principalmente fattore umano sia nella prevenzione che nella incidentalità, alla gente di mare è affidata questa responsabilità crescente, a prescindere dalla specializzazione e dal carico della nave e dalla velocità di esecuzione delle operazioni di bordo, che la concorrenza armatoriale di mercato accelera sempre più.
Tuttavia, il lavoro della gente di mare resta ancora oscurato, come fosse un’appendice e non l’anima degli smaglianti acciai dei giganteschi scafi, nonostante l’impiego della tecnologia ICT che ha rotto l’isolamento in alto mare avvicinando le famiglie e i territori di origine ai naviganti e la terraferma al comando nave. La non conoscenza del lavoro marittimo può trasformarsi facilmente in forte debolezza, se usata per rinforzare i tentativi di distorte economie di scala che vorrebbero controllare condizioni e opportunità di lavoro della gente di mare attraverso il ridimensionamento di quel che si è conquistato finora in termini di diritti, introducendo una concorrenza al ribasso tra marittimi. Allo stesso modo, racconti troppo promettenti e romanzati della vita di bordo producono aspettative irrealistiche, che reprimono la conoscenza e lo sviluppo culturale del lavoro della gente di mare e ne assottigliano, di fatto, l’appetibilità di ingresso per le nuove generazioni. La gente di mare, che in pochi anni può toccare tutti i continenti del globo ed attraversare tutti i mari, senza mai smettere di pensare che il miglior posto del mondo è la propria terra, meriterebbe evidentemente molto di più da decisori e organismi internazionali.
Giovanna Visco
NB: questo articolo è stato scritto il 24 novembre 2015 e pubblicato da NoStop