La guerra santa di Trump contro l’Iran

Dopo quella del 7 agosto scorso, dal 5 novembre con l’embargo esteso anche alle banche e al greggio iraniani, è entrata in vigore la seconda e ultima fase della decisione unilaterale di Trump di uscire dall’JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), il Piano del 2015 tra Iran, Cina, Francia, Germania, Regno Unito, Russia, Stati Uniti e Unione Europea, voluto fortemente da Obama, per un percorso dialogante sulla energia nucleare iraniana, alternativo alle sanzioni. 
Ma Trump ha deciso di girare la prua, stigmatizzando l’accordo come totale disastro e lanciando un embargo commerciale a 360°, che coinvolge qualsiasi attività commerciale o finanziaria verso l’Iran, svolta da persone, aziende o enti non solo statunitensi ma anche di altri Paesi,. Una decisione che non lascia tranquilli nemmeno i cittadini iraniani all’estero, che stanno subendo le conseguenze dell’embargo per il rilascio di visti e documenti per la permanenza estera, e per il trasferimento di denaro o l’accesso ai conti correnti. 

Tuttavia, la Repubblica Islamica dell’Iran intende salvaguardare l’accordo JCPOA con gli altri Paesi firmatari e limitare l’impatto delle sanzioni, ma nel contempo ha urgenza di  migliorare le condizioni economiche della popolazione, mentre i vertici religiosi ultraconservatori e i leader delle Guardie Rivoluzionarie, i pasdaran, al servizio della guida suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, spingono verso reazioni dure. 
Ne sono conseguite alcune dichiarazioni del Presidente Hassan Rouhanialla guida dei moderati iraniani, con cui ha chiarito che senza giusti incentivi, l’Iran potrebbe ritirarsi dal JCPOA ed anche dal Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, e riprendere l’attività di arricchimento dell’uranio. 

Rouhani ha anche reiterato l’ipotesi di una chiusura militare dello Stretto di Hormuz nel Golfo Persico, il più importante snodo mondiale per il traffico di petrolio via mare, con 18,5 milioni di barili di greggio in transito al giorno, pari a circa 1/3 del traffico mondiale di greggio via mare, di cui l’80% diretto nei paesi asiatici (dati delle US Energy Information Administration). 
Nel corso di un comizio celebrativo studentesco nel Semnan, provincia nel Nord del Paese, dopo aver sottolineato l’incapacità di Washington di effettuare l’embargo petrolifero all’Iran, Rouhani ha anche aggiunto che se a causa di esso il Paese non potesse esportare petrolio, andrebbe in tilt tutta l’esportazione del Golfo. 

Ma intanto l’embargo statunitense imposto all’Iran sta contagiando tutti i paesi dello JCPOA, attraverso la leva delle sanzioni secondarie, che l’Amministrazione Trump ha riservato a tutti i soggetti non statunitensi che manterranno rapporti commerciali con l’Iran, con l’eccezione per 6 mesi di 8 paesi importatori di greggio: Cina, India, Italia, Grecia, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Turchia, per dargli il tempo di reperire approvvigionamenti alternativi, purché se ne riducano progressivamente da subito gli acquisti. 

È soprattutto questa parte ritorsiva dell’embargo statunitense ad essere maggiormente contestata, da più parti e da più Paesi, in quanto viola le norme del diritto internazionale, costringendo quelli che supportano il patto, a violare un trattato firmato sulla base di una risoluzione Onu. 

Economicamente, l’ondata d’urto in Europa è importante, e per quanto riguarda l’economia italiana, essa compromette un interscambio consistente, che nel 2017 è ammontato a 5 miliardi di euro, e a commesse per 30 miliardi di dollari (fonte Ispi).

L’Amministrazione USA motiva l’embargo accusando l’Iran di aver sostenuto terrorismo e regimi dittatoriali con le entrate scaturite dall’accordo JCPOA, ma nei sotterranei dell’indicibilità diplomatica, le motivazioni sono molto più precise. 

Innanzitutto c’è la volontà di allontanare Teheran da Russia e Cina, ma non solo. C’è la scelta di assicurare sicurezza allo Stato di Israele, che continua a destabilizzare il Medio Oriente con l’occupazione dei territori fuori dai confini dello Stato. Sostenuto da lobby statunitensi di peso elettorale, il governo israeliano punta ad annientare l’appoggio iraniano alle forze sciite libanesi Hezbollah e a fronteggiareil timore di una egemonia iraniana in Siria, dove, come spiegato recentemente dall’Inviato Speciale di Stato per la Siria, James Jeffrey, l’obiettivo è di sconfiggere lo Stato Islamico e contemporaneamente determinare il ritiro di tutte le forze iraniane che appoggiano il governo di Bashar al-Assad, per avviare un processo di cambiamento irreversibile della politica del regime siriano in  collaborazione con Onu, Russia e comunità internazionale. Infine, c’è l’esigenza statunitense di sostenere il Regno Sauditagrande investitore finanziario ed alleato di Trump, che continua a bombardare la popolazione dello Yemen insieme agli Emirati Arabi con il sostegno militare Usa, che gli assicura rifornimento in volo dei caccia, intelligence e tecnologia, autorizzati da Obama nel 2015. 

È da quell’anno che nello Yemen lo scontro sanguinoso tra sunniti e sciiti Houti, questi ultimi sostenuti dall’Iran e da larga parte della popolazione, ha subito un’impennata senza soluzione di continuità, determinando una crisi umanitaria senza precedenti, che in 3 anni ha ucciso per fame 85.000 bambini

Il Senato statunitense recentemente sul Regno Saudita ha messo in minoranza la politica estera di Trump (con 56 voti favorevoli, di cui 7 repubblicani e 41 contrari), approvando la risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento Usa nella guerra dello Yemen, spinta anche dall’orrore per il brutale omicidio del giornalista saudita Khastoggi nel consolato saudita di Instabul. 

La risoluzione sarà discussa alla Camera in gennaio,  che dai risultati del voto di midterm, è ora a maggioranza democratica. Intanto a Stoccolma prosegue il lavoro diplomatico per porre fine a questo massacro, ma l’Italia leghista sta pensando di violare la legge 185/90 contro l’ export di tipo militare a paesi coinvolti in conflitti, per vendere armi al Regno Saudita.

Tuttavia la situazione resta quanto mai fluida e inquietante. È di queste ultime ore la decisione di Trump di ritiro immediato delle truppe statunitensi, circa 2000 unità, dalla Siria

Questo atto non trova l’appoggio del Pentagono e nemmeno di alcuni influenti senatori repubblicani. Trump ha dichiarato che l’Isis è sconfitta e dunque perde ragione la permanenza militare in Siria. Ma l’improvviso sgombero militare, oltre a liberare il campo a Russia e Iran, lascia scoperti i curdi siriani che hanno combattuto l’Isis con gli Usa, e che a loro volta, con l’accusa di terrorismo, sono braccati dalla Turchia di Erdogan, il quale ha già rilasciato dichiarazioni che lasciano intendere un accordo con Trump in tal senso. 

Ma i conti non tornano, anche perché l’Iran resta l’obiettivo principale di Trump e dunque questa mossa lascia pensare ad insidie nascoste, ancor più militarmente invasive. Intanto Israele ha fatto sapere che continuerà a fare quanto necessario per impedire all’Iran di costruire  in Siria basi militari vicino al confine. Per il momento non resta che continuare ad osservare la situazione.

Con l’embargo, come confermato anche da diversi osservatori internazionali, Trump intende far implodere l’economia iraniana, per destabilizzare politicamente il Paese, per abbattere definitivamente il regime di Rouhani, che da parte sua, ha stigmatizzato le sanzioni statunitensi come atto di guerra economica, che il Paese è pronto a vincere, forte del fatto che resiste alle misure ritorsive da 40 anni.

Ma destabilizzare l’Iran avrebbe pesanti ricadute internazionali, e non solo per ragioni energetiche, considerato che l’Iran è il terzo esportatore petrolifero Opec, e di equilibrio economico internazionale, tenuto conto che l’import iraniano conta nella bilancia dei pagamenti di molti Stati, ma per la salvaguardia dell’equilibrio del Medio Oriente, il cui processo di pace ha bisogno di dialogo, libertà ed indipendenza, nonché per le nuove ondate migratorie, che inevitabilmente ne scaturirebbero.

Si profila, dunque, una vicenda geopolitica contorta, condita con gli elementi del vecchio stampo colonialista, cari al populismo conservatore e razzista, radicato soprattutto nelle province statunitensi di Trump, ed ai signori delle armi. Ancora oggi in una parte della cultura politica degli Stati Uniti, quella che non ha mai spezzato il cordone ombelicale  del violento colonialismo economico e religioso occidentale, c’è un bisogno di autoaffermazione e di superiorità, dimentico delle ispirazioni illuministe che diedero significato etico e morale alla esigenza di indipendenza del Paese, accolte nella Carta Costituzionale degli Stati Uniti, fondata sul pensiero di Gaetano Filangieri, grande filosofo illuminista napoletano, oltre che su quello di Montesquieu.

Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha osservato che l’imposizione di Trump sfida le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, ma contiene in sé anche un effetto boomerangi di isolamento politico internazionale degli Stati Uniti. Intanto, anche in risposta all’embargo, si stringe sempre più l’avvicinamento tra Iran e Iraq, il cui presidente Barham Salih, in visita ufficiale in Iran, ha espresso la volontà di rafforzare i rapporti tra i due paesi, che stanno convergendo sull’istituzione di free trade zones lungo i loro confini, basate sulla creazione di un nuovo sistema regionale di “integrità politica, interessi nazionali e cooperazione tra nazioni e governi”. L’Iraq, dopo la Cina, è il secondo mercato per l’Iran, con un interscambio commerciale annuo in continua crescita, che nel 2017 ha raggiunto i 7 miliardi di dollari, nel 2018 si chiuderà a circa 8 miliardi e mezzo di dollari, e che nel medio-lungo periodo è previsto tendere ai 20 miliardi. 

Sfavorevole anche la reazione degli altri firmatari del JCPOA, che, contraddicendo Trump,  valutano soddisfacenti i risultati e il rispetto di Teheran dei termini dell’accordo. Il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, con i Ministri degli Esteri e delle Finanze di Germania, Francia e Gran Bretagna, in una nota ha espresso profondo rammarico, sottolineando quanto fondamentale sia l’implementazione di un accordo sul nucleare per la sicurezza dell’Europa e del mondo intero. 

Dopo la ferma condanna del ritiro statunitense dal patto, ora c’è da parte degli altri Paesi la ricerca di un meccanismo finanziario ad hoc che possa permettere i pagamenti dell’interscambio commerciale con l’Iran bypassando il dollaro americano, e dunque le sanzioni secondarie USA sugli asset americani detenuti dalle banche europee che fanno operazioni con l’Iran.


Il lavoro per unprogetto finanziario alternativo è in atto, comedichiarato dalla Mogherini a metà novembre, ma non è possibile stabilirne la tempistica, complicata anche dalla decisione unilaterale dello SWIFT (sistema interbancario internazionale per il trasferimento di informazioni e l’effettuazione dei pagamenti di 248 banche di 19 paesi) di sospendere l’accesso al sistema a banche iraniane. 

Per il momento nessun Paese UE ha preso ancora l’iniziativa di registrarsi volontariamente al progetto di un meccanismo finanziario per mantenere i conti con l’Iran, come invece dichiarato da Regno Unito, Germania, Francia, Cina, Russia e Iran a settembre scorso, a seguito di una riunione ministeriale delle Nazioni Unite. Intanto anche le compagnie aeree europee stanno cassando i voli per Teheran per timore delle sanzioni secondarie.

Anche il risultato delle imminenti elezioni europee avrà un peso su tali decisioni, e la tendenza dei populisti, come mostrato dalla visita ufficiale in Israele di Salvini, non può che suscitare grande inquietudine, strombazzata in Italia con l’intesa non ancora formalizzata, che si è raggiunta tra Israele, Cipro, Grecia e Italia, novembre scorso, ad un anno dallo studio di fattibilità della Unione Europea, per la costruzione di un gasdotto di 2.100 km che, attraversando il Mediterraneo, fornirà gas naturale estratto dai giacimenti a largo di Israele. Il valore dell’opera è di 6 miliardi di euro e dovrebbe entrare in funzione dal 2024-2025.

Giovanna Visco

Questo articolo è stato possibile grazie alla consultazione di molte fonti giornalistiche, reperite su testate italiane ed internazionali, tra le quali Reuters, Bloomberg, Sputnik, Askanews, AdnKronos, Ansa, Euronews, Il Sole24Ore.

NB: questo articolo è stato scritto il 20 dicembre 2018

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