La crisi della Tunisia

Migranti e finanza, due lati della stessa medaglia

Da anni attanagliata da gravi difficoltà economiche, la Tunisia da qualche mese è ascesa alla ribalta occidentale per l’emergenza migranti, che dalle coste di Sfax, Kerkennah e Mahdia partono alla volta di quelle europee. Un traffico di migliaia di irregolari subsahariani e tunisini, in fuga dalla crisi climatica, dalle guerre e dal dissesto economico causato dal debito sovrano, che imprigiona interi paesi in un circolo vizioso di dipendenza e povertà. Attraversano pericolosamente il breve tratto dello Stretto di Sicilia, contraddistinto da forti correnti, in  condizioni di viaggio inumane, dentro barconi senza ripari zeppi di persone, spesso lasciati alla deriva da contrabbandieri senza scrupolo.

Nei primi mesi dell’anno, da fonte Onu, dalla Tunisia sono sbarcati in Italia circa 12.000 irregolari (1.300 nello stesso periodo del 2022), superando quelli dalla Libia. Altri 14.000, nel primo trimestre 2023, sono stati fermati alla partenza dalla guardia costiera tunisina (2.900 nello stesso periodo del 2022), toccando il record a fine marzo, quando in soli due giorni ha sequestrato 56 imbarcazioni e arrestato oltre 3.000 persone. Durante la traversata, invece, sono molti quelli che perdono la vita nel Canale di Sicilia, senza nemmeno poter raggiungere almeno la frontiera italiana più vicina, Lampedusa, l’isola che dalle coste nord est tunisine si vede a occhio nudo, distante solo 18 miglia nautiche. Continuamente il mare restituisce corpi senza più vita di uomini, donne e  bambini (210 in soli 10 giorni lo scorso aprile), portando al collasso cimiteri, ospedali e obitori tunisini, che ora cercano di affrontare l’emergenza con il trasporto delle salme con mezzi refrigerati in nuovi spazi cimiteriali.

Dopo più di 10 anni dall’avvio di un percorso democratico sul modello occidentale,  scaturito  dalla rivoluzione dei gelsomini del 2011, che diede il via alla Primavera Araba, la marea migratoria si aggiunge ai gravi problemi, economici e sociali, mai attenuatisi, della Tunisia.

Politica e migrazione

L’Unione Europea, tra le iniziative di argine delle ondate migratorie, recentemente ha raggiunto con la Tunisia una intesa di partenariato operativo, imperniata su tre punti cardine, quali un maggiore sostegno europeo per la protezione delle frontiere marittime e di quelle terrestri nel sud del paese; una campagna informativa di sensibilizzazione sui pericoli della migrazione irregolare; la promozione della migrazione legale di persone con profili professionali ricercati nei paesi UE, la cosiddetta talent partnership.

Tuttavia, per quanto fonte di reddito individuale e di rimesse dall’estero, c’è da osservare che gli effetti della talent partnership possono essere molto perversi nei paesi esportatori di manodopera, causando una deprivazione sociale ed economica di figure professionali indispensabili allo sviluppo. Resta invece irrisolta la pressante necessità, comune a molti paesi africani, di favorire un’occupazione interna dignitosa, affiancata da vasti programmi di formazione professionale, con cui abbassare il tasso di disoccupazione del paese di oltre 15%, e  in particolare quello giovanile, che nel 2019 ha superato la soglia del 30%. Sono i giovani a costituire il 23% della forza lavoro del paese e, purtroppo, il 32% dei lavoratori informali.

Per effetto di una emigrazione senza soluzione di continuità, la Tunisia, attualmente conta meno di 12 milioni di abitanti, la cui maggioranza dei lavoratori si barcamena tra disoccupazione  e lavoro informale. Da un’analisi su dati 2019 di Manel Dridi, ricercatrice nell’Università Elmanar di Tunisi e Consigliera del Ministro del Lavoro e della Formazione Professionale, su un totale di 3,6 milioni di occupati, i lavoratori informali ammontano a circa 1,6 milioni (45%),  per lo più braccianti, giovani e donne. Il 12% di essi è analfabeta, il 45% ha una istruzione primaria, e solo l’8% una superiore. Quelli altamente istruiti, circa 128.000 di cui 80.000 donne, ritengono inevitabile accettare condizioni di lavoro precarie, senza diritti e a bassa retribuzione, prima di riuscire ad accedere a un lavoro decente. Tale rassegnazione trae conferma dal contesto economico del paese, costituito prevalentemente da microimprese, che non riescono ad accedere a strumenti finanziari e tecnologici, con ulteriori complicazioni nel sud e nell’ovest tunisino, dove l’attività principale è l’agricoltura, settore  a più alta quota di lavoro informale, e una legge dello Stato riduce gli investimenti pubblici e privati rispetto al resto del paese.

Un equilibrio spezzato

Tra le principali cause dell’ingrossamento dei flussi migratori sub-sahariani e nordafricani verso l’Europa, vi è la rottura del sistema di equilibrio che per decenni ne aveva sbollentato la pressione. Tale sistema era ancorato all’economia nordafricana basata principalmente sulla redistribuzione interna della ricchezza, prodotta dall’esportazione di materie prime, petrolio e gas in primis, e dai flussi turistici, che riusciva a dare occupazione e reddito anche a migliaia di migranti sub-sahariani. L’insorgere delle tensioni egemoniche geopolitiche, che hanno favorito violenze e terrorismo, e la crescita esponenziale della finanza creativa globale hanno aggredito questo sistema, fino a sgretolarlo sotto il peso di un carovita crescente, causato dalle speculazioni finanziarie sulle materie prime alimentari.  Un paese baricentrico come la Libia è precipitato nel baratro sotto l’impatto della primavera araba, che nel 2011ha portato  all’uccisione, dopo 42 anni di governo, di al-Qaddafi e alla guerra civile, trasformando il paese da luogo di accoglienza a produttore di centinaia di migliaia di profughi, accolti per lo più da Tunisia e Algeria. Speculazioni globali, pandemia e conflitto russo-ucraino hanno picconato il resto, in un contesto continentale sempre più nervoso e difficile, per la crisi climatica e per le tensioni geopolitiche legate all’accaparramento delle materie critiche africane. A causa della siccità, le campagne si spopolano, squilibrando l’economia di sostentamento di vaste aree, ingrossando miserabili mega bidonville di città, in cui la speranza di una vita decente trova sbocco solo nel tentativo di fuga.

Le reazioni del governo

L’afflusso dei migranti sub-sahariani in Tunisia, paese mediterraneo strategico, aggrava la sua forte debolezza economica e sociale, che a sua volta aggrava gli effetti del debito pubblico attestato nel 2022 al 90%, di gran lunga inferiore a quello di Italia (140%), Stati Uniti (122%) e Francia (111%). Lo scorso 21 febbraio, il presidente Kais Saied ha annunciato al paese la necessità di “misure urgenti” contro le “orde di clandestini” provenienti dall’Africa sub-sahariana, spinte da una “impresa criminale ordita all’alba di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia”. A seguire, è partita la campagna “Rafforzamento del tessuto di sicurezza e riduzione del fenomeno della residenza illegale in Tunisia”, che ha prodotto numerosi arresti ed espulsioni, alcune delle quali seguite da rimpatrio aereo, e fomentato una raffica di sfratti e licenziamenti contro molti subsahariani. Si è stabilito un crescente clima di odio e discriminazione razzista, che ha sollevato nel paese manifestazioni e sit-in di protesta e allarmato le organizzazioni internazionali, tra cui il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale con sede in Svizzera.

La condizione politica del paese

La dura crisi economica contrassegnata da disoccupazione, inflazione e carovita, già nel 2019 aveva portato l’indipendente Kais Saied, giurista docente universitario, a vincere le elezioni presidenziali, spodestando dopo 10 anni la coalizione dominata dal partito islamista Ennahdha. La fragile economia tunisina, fortemente dipendente dalle importazioni di beni primari e dal turismo, non ha anticorpi contro le recessioni e i rincari alimentari ed energetici globali. Dopo le proteste popolari antigovernative per il forte disagio sociale, il 25 luglio 2021 Saied  per “riscattare il Paese”, revoca il mandato al primo ministro Hichem Mechchi, ora in esilio in Francia e nomina un nuovo governo, trattenendo a sé la maggior parte dei poteri esecutivi, congelando, sciogliendolo  successivamente per nuove elezioni, il Parlamento. Nel 2022 con un referendum partecipato solo dal 30% degli aventi diritto, introduce una nuova Carta Costituzionale, sostituendo quella del 2014, emanazione della rivoluzione dei gelsomini, con cui attribuisce forti poteri al presidente, limitando quelli di esecutivo, parlamento e magistratura, ed elimina la religione di Stato, sostituita con un richiamo costituzionale a realizzare i principi dell’Islam. Contemporaneamente, inizia un forte giro di vite ai suoi oppositori, politici, sindacalisti, intellettuali e magistrati, tuttora in corso.

Ciononostante, come riporta ISPI, nell’ultimo sondaggio  di Emrhod Consulting  l’indice di gradimento dei tunisini verso l’operato di Saied, dopo aver guadagnato quattro punti percentuali tra dicembre 2022 e febbraio 2023, si attesta al 52%, molto alto ma non quanto  l’82% dell’agosto 2021. Comunque, oltre il 60% dei tunisini si dichiara ottimista riguardo il futuro del paese, contro il 28% dei pessimisti.

A livello internazionale, la politica di Saied sta suscitando reazioni contraddittorie, dettate soprattutto dalla pressione migratoria, a cui l’Italia è particolarmente esposta, anche se temporaneamente condizioni meteomarine avverse abbiano quasi azzerato le partenze. All’ultimo G7 in Giappone, la premier Gorgia Meloni, avanzando timori sull’incognita di un dopo Saied e sul rischio di peggiorare la situazione, ha invitato il Fondo Monetario Internazionale (FMI) a un approccio meno rigido e più pragmatico verso il prestito alla Tunisia.

La crisi economica tunisina – Il prestito FMI

Secondo le agenzie di rating, la grave condizione finanziaria del paese, a meno che non vi siano interventi esterni, lo porterà al default a fine anno, allo scadere dei rimborsi dei prestiti esteri. Una eventualità che l’Unione Europea vuole scongiurare, in quanto porterebbe all’incontrollabilità dei flussi migratori irregolari. In questo senso, il pacchetto di salvataggio della Tunisia del Fondo Monetario Internazionale (FMI), organizzazione pubblica internazionale composta da 197 paesi e diretta attualmente dalla bulgara Kristalina  Georgieva, ancorato al prestito di 1,9 miliardi di dollari,  assume estrema rilevanza. Tuttavia la sua erogazione è in stallo, per il rifiuto tunisino di accettare le durissime, quanto al momento irremovibili, condizioni poste per garantirlo, che in generale aprirebbero le disponibilità finanziarie occidentali.

Dal canto suo il governo tunisino l’estate scorsa ha tentato di abbozzare un proprio piano di riforme, che comunque ha provocato uno sciopero generale che ha paralizzato il paese. Recentemente, il primo ministro Najla Bouden ha definito i diktat di FMI una “nuova forma di colonialismo”, sottolineando che l’aiuto dai paesi stranieri  dovrebbe consistere nel “restituire i nostri soldi saccheggiati e far cadere i debiti accumulati”. Nonostante la difficile situazione economica, rifiutare i diktat di FMI è l’unico punto condiviso anche dalle opposizioni politiche e dall’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT). Il paese è assediato da un insieme di pesanti problemi, tra cui la crisi di liquidità, un persistente carovita in trend di crescita costante dal 2019, facendo arrivare al 15,6% l’indice dei prezzi al consumo ai primi di maggio, e una forte inflazione, il cui un tasso su base annua ha superato il 10%. Per fronteggiare  tale emergenza, il governo sta vagliando strade alternative al Fondo monetario. Come pubblicato da Asharq Al-Awsat, dopo aver sottoscritto nel 2018 l’accordo di adesione alla Belt Road Iniziative cinese, ora  la Tunisia si starebbe muovendo per entrare nel gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), sulle orme di Algeria, Bangladesh, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Uruguay. Il portavoce del Movimento 25 luglio vicino a Saied, Mahmoud bin Mabrouk, lo scorso aprile, respingendo le intromissioni impositive dall’estero, di agenda UE e istruzioni varie, negli affari interni tunisini, ha indicato il BRICS come l’alternativa politica, economica e finanziaria capace di offrire alla Tunisia importanti sostegni con cui migliorare le condizioni del paese.

Le richieste lacrime e sangue di FMI sono considerate in Tunisia portatrici di ulteriore inaccettabile impoverimento, ma anche alcuni analisti internazionali accreditati ne stanno evidenziando le conseguenze negative, tra cui Alissa Pavia, direttrice associata del Programma Nord Africa presso il think tank statunitense Atlantic Council, che ha commentato che “La soppressione dei sussidi per i prodotti di base aggraverà le diseguaglianze e amplierà la distanza tra regioni interne e costiere della Tunisia, nuocendo alla crescita economica del Paese”.

Intanto a complicare la situazione si è aggiunta anche la sospensione dell’erogazione del prestito assentito dalla Banca Mondiale alla Tunisia, a seguito delle dichiarazioni di Saied sui migranti subsahariani, mentre proseguono i pochi aiuti esteri in essere, consistenti in prestiti mirati per gli acquisti di cibo e carburante, insufficienti, tuttavia, a finanziare il bilancio tunisino.

Il punto sul prestito FMI

Le pesanti condizioni poste da FMI  a garanzia del prestito di 1,9 miliardi di euro impongono principalmente la riduzione fino alla eliminazione dei sussidi per il carburante, con aumento graduale del suo prezzo di circa 3%-5% al ​​mese, e di quelli per il cibo, il taglio della spesa pubblica per la sanità, per l’istruzione e per la protezione sociale, la privatizzazione delle principali aziende pubbliche, riguardo cui è già stata approvata una legge non ancora formalmente emanata.

Senza l’arrivo degli aiuti necessari la crisi tunisina si aggrava al passare del tempo, e come riporta Reuters, questo  potrebbe motivare il Fondo monetario a volere ulteriori trattative per il ricalcolo del prestito.

Il problema finanziario principale della Tunisia è legato alla crisi della sua bilancia dei pagamenti, benchè la maggior parte del debito sia interno. Il paese ha difficoltà a pagare le importazioni dei beni fondamentali per la sopravvivenza della popolazione, e il governo ha già dovuto affrontare ripetute carenze alimentari di zucchero sovvenzionato, caffè, olio, latticini e  medicinali. L’inflazione rischia di espandersi ulteriormente, coinvolgendo anche altri beni sovvenzionati essenziali come il carburante, mentre le casse governative potrebbero essere insufficienti a pagare gli stipendi statali.

Dal canto suo, FMI dichiara di essere al fianco della Tunisia, restando suo partner forte e continuando a sostenere le autorità nei loro sforzi di riforma. 

(Giovanna Visco)

Foto di copertina di  SNFSI/Facebook

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