Qualche mese fa, un potente veterano della guerra di liberazione e consigliere presidenziale, Chris Mutsvangwa, sintetizzava al The Guardian “Stiamo realizzando ciò che perseguiamo dagli anni ’70: costruire un nuovo e moderno Paese. Abbiamo intenzione di aprirci economicamente”.
Indigenisation and Economic Empowerment Act e l’emendamento di Mnangagwa
Il Presidente Mnangagwa, per convincere i capitali stranieri a ritornare nel Paese e risollevare in tal modo la difficilissima economia zimbabwana, vuole aprire al business l’agricoltura e l’attività mineraria del Paese.
Già poco prima di essere eletto, Mnangagwa aveva emendato l’Atto di emancipazione economica e di indigenizzazione, Indigenisation and Economic Empowerment Act, promulgato da Mugabe nel 2008, anno in cui è esplosa la gravissima crisi finanziaria internazionale.
Con tale Atto, Mugabe aveva messo lo stop alle quote di maggioranza delle società straniere, e favorito il controllo azionario per almeno il 51% degli indigeni africani, cioè di “ogni persona che prima del 18 aprile 1980 era svantaggiata dalla discriminazione razziale e ogni suo discendente”.
L’emendamento di Mnangagwa ha rimosso quella clausola per tutte le miniere, eccetto per quelle di diamanti e di platino.
I giacimenti dello Zimbabwe
Il Paese possiede il secondo giacimento di platino più esteso del mondo, dopo quello del Sudafrica, disseminato nell’immensa area del Great Dike.
il Great Dike è lunga fascia collinare e montuosa verticale Nord-Sud, lunga circa 550km, che contiene importanti depositi anche di oro, argento, cromo, nickel e amianto.
Risale invece al 2006 la scoperta del campo diamantifero di Marange nello Chiadzwa, in termini di carati prodotti la più grande del mondo.
Questo campo ebbe enorme risalto internazionale, suscitando sanzioni e divieti internazionali: come ovunque nel mondo vi siano giacimenti di questo tipo, in Zimbabwe tale scoperta ha prodotto migrazioni di cercatori, violenza, sfruttamento di adulti e bambini, export illegale di preziosi, alti profitti economici risucchiati dalla corruzione e dai paradisi fiscali.
La nazionalizzazione delle miniere di diamanti
Per abbattere il contrabbando e distribuire ricchezza alle popolazioni locali, nel 2016 Mugabe nazionalizza l’attività mineraria diamantifera, sancendone il monopolio.
Nel fare ciò, espropria la società inglese African Consolitade Resources da uno dei più ricchi giacimenti diamantiferi del mondo, costituendo così l’antefatto di ulteriori sanzioni e fuga di investitori stranieri.
La politica di rilascio concessioni minerarie di Mnangagwa
Il cambio di registro apportato attualmente da Mnangagwa nella politica del Paese, seguendo l’Accordo di Lima, ha condotto alla chiusura di alcuni accordi con investitori stranieri.
In luglio scorso è stato ufficializzato un progetto minerario del valore di 4,2 miliardi di dollari, il più grande investimento della storia dello Zimbabwe.
Il progetto è una joint venture tra il Governo dello Zimbabwe e la Karo Mining Holdings, una società cipriota della famiglia Pouroulis, partecipata per il 26,8% dal gruppo minerario Tharisa, produttore low cost di platino e cromo, sempre di proprietà dei Pouroulis.
L’accordo prevede una concessione di circa 24.000 ettari nel Mhondoro-Ngezi della Great Dyke, per l’estrazione e la lavorazione di platino, la realizzazione di una miniera di carbone, e la costruzione di una centrale elettrica per le raffinerie.
La produzione inizierà nel 2020 con l’apertura della prima delle 4 miniere, raggiungendo il pieno regime nel 2023, con 1,4 milioni di once di platino all’anno.
Ad agosto, invece, la statunitense Vast Resources, ha ottenuto dalla Red Mercury, che è il Fondo azionario della comunità di Marange-Zimunya, una concessione in esclusiva di 15 km2.
L’accordo prevede il dividendo annuale di almeno il 50% degli utili prodotti dall’estrazione diamantifera e l’impegno di Vast a sostenere il patrimonio culturale della comunità e l’implementazione di una attività produttiva locale di creazione di gioielli.
Vast sta ora conducendo una due diligence, per determinare il valore della sottoscrizione della joint venture.
Lo Zimbabwe, la Cina e il Piano Harare
In questo intreccio di accordi, altri restano alla finestra a guardare.
Tra questi la Cina, che da lungo tempo ha una radicata presenza in Zimbabwe con circa 500 grandi compagnie e profitti annuali pari ad 1 miliardo di dollari.
I cinesi avevano prospettato al Paese, prima che la deposizione di Mugabe ne sconvolgesse il disegno, il Piano Harare, collegato alla consorte di Mugabe, Grace.
Il piano Harare, di segno opposto a quello di Lima, prevedeva un salvataggio economico di 5 miliardi di dollari, attraverso investimenti nei settori di edilizia popolare, agricoltura e agroindustriale.
Tuttavia, alla luce dei cambiamenti politici interni, come riportato dalla stampa zimbabwana, pochi mesi or sono, durante la visita ufficiale di Mnangagwa in Cina, la potenza asiatica gli ha dato un benservito, dichiarando che sarà felice di aiutare il Paese quando miglioreranno i suoi sistemi finanziari e legali.
I nostalgici del Commonwealth
All’estremo opposto, nella capitale Harare c’è chi auspica un rientro dello Zimbabwe nel Commonwealth, che alcuni osservatori valutano possibile.
Ritengono, in sintesi, che la comunità internazionale ha interesse a ricomporre i rapporti con il Paese africano, specie la Gran Bretagna del dopo-Brexit, che, tra l’altro, ha appoggiato Mnangagwa durante la campagna elettorale.
Gli investimenti manifatturieri stranieri
Come riporta Reuters, Mnangagwa conta molto sugli investimenti delle multinazionali manifatturiere, alcune delle quali ne avrebbero anche dichiarato l’intenzione, tra cui le statunitensi General Electric e la Coca Cola, che vorrebbe fare del Paese un centro di esportazione di succhi e di altri prodotti.
Ma nella realtà resta la cronica carenza di cassa dello Stato, che ostacola le importazioni delle imprese, il rimpatrio all’estero dei profitti, e avvilisce il mercato azionario.
Mnangagwa in campagna elettorale, nel solco del Piano Lima, ha espresso la volontà di stipulare un accordo con il Fondo Monetario Internazionale e di introdurre una nuova moneta entro 3-5 anni.
Due progetti che implicano di accettare condizioni molto dolorose per la popolazione, tra cui la riforma del settore pubblico con pesanti tagli occupazionali, che, come in passato, scatenerà forti ondate di proteste.
Il principale datore di lavoro
Nello Zimbabwe lo Stato è il principale datore di lavoro di occupazione stabile: la popolazione per lo più si arrangia o si autoimpiega, ed il 38% di essa vive in condizioni di estrema povertà. Il Paese dispone di una coperta che comunque la si giri è troppo corta: a maggio scorso Mnangagwa ha disposto un aumento salariale del 17,5% per i dipendenti pubblici, che ha procurato ulteriore deficit e nonostante l’insediamento del nuovo governo, la situazione per il momento non appare migliorata.
La penuria di merce
Come riporta Al Jazeera, nella capitale Harare si assistono a lunghe file, di giorno e di notte, davanti a pompe di benzina, supermercati, e centri di distribuzione.
Molti negozi sono “chiusi per inventario”, mentre galoppano i prezzi di quelli aperti: la merce scarseggia e la gente, in preda al panico, cerca di fare scorta di tutto il possibile.
Il governo ha annunciato l’acquisto di 40 milioni di dollari di carburante, che continua a scarseggiare: l’apertura delle pompe è irregolare, mentre il mercato nero pullula di venditori di fortuna che offrono carburante a prezzi salati.
Molte persone sbarcano il lunario illegalmente, fuori dalle stazioni di servizio, nei vicoli e lungo le strade trafficate delle aree suburbane: per un dollaro noleggiano imbuti e taniche per il trasporto di benzina, e per 50 cent quelle di plastica, vietate dalla legge.
Le rassicurazioni del Governo
“Non c’è bisogno di farsi prendere dal panico. Il Governo sta garantendo la disponibilità di tutti i beni essenziali, compreso il carburante” ha dichiarato Mnangagwa invitando alla calma, ma i problemi economici di liquidità incombono.
Il governo, per generare entrate, ha stabilito un nuovo sistema fiscale, che amplia la base imponibile e prevede una tassa su tutte le transazioni del 2%, sollevando le reazioni di protesta della opposizione, dei movimenti sindacali e del partito DMC.
Intanto Nelson Chamisa, leader del partito di opposizione DMC che ha contestato i risultati elettorali, sta organizzando manifestazioni per chiedere un governo di transizione che conduca il Paese fuori dalla crisi.
ZIMBABWE IN PILLOLE
dati da World Population Review
La popolazione dello Zimbabwe nel 2018 supera i 17 milioni di abitanti, in costante crescita al tasso del 2,32% annuo.
L’età media è di 19 anni; il tasso di mortalità è elevato, per la diffusione di malattie come l’Hiv/Aids: il 14% della fascia di età 14-49 anni ne è infetta.
La densità media del Paese è di 43 abitanti per km2, ma il 31% degli zimbabwani è concentrato nelle città: maggiormente nella capitale Harare, con 1.56 milioni, seguita dalla seconda città del Paese, Bulawayo, con 703.000 abitanti.
Il 94,5% della popolazione è acculturata e il Paese spende il 5,3% del proprio Pil per l’istruzione.
Oltre il 96% della popolazione dispone di acqua pulita da bere, ma solo l’85% dispone di impianti igienici adeguati.
Il 38% della popolazione è in estrema povertà. Il tasso di emigrazione è molto alto, e rappresenta una voce importante dell’economia interna, in termini di rimesse ufficiali – nel 2015 prima voce del Pil del Paese con una quota del 13% – e di rimesse al nero.Le lingue ufficialmente parlate oltre all’inglese, in Zimbabwe superano la decina, anche se la più ampiamente diffusa è il Bantu.
Giovanna Visco
NB: questo articolo è stato scritto il 30 novembre 2018
Foto di copertina di ZINYANGE AUNTONY Credit: AFP/Getty Images