Mentre il Green Deal europeo si fa spazio in progetti e programmazioni strutturando un futuro energeticamente diverso ed indipendente, il petrolio resta ancora un business strategico che non demorde, avvantaggiato dal bisogno di ripresa economica globale, che per molti paesi asiatici ed africani si tradurrà nel persistere delle fonti energetiche fossili, più a buon mercato e subito disponibili.
Il Memorandum vincolante EAPC – MED RED Land Bridge
Ne sono conferma anche gli Accordi di Abraham, sottoscritti alla Casa Bianca il 15 settembre 2020, comprensivi dell’Accordo di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (EAU) e della Dichiarazione di pace tra Israele e Bahrein, nel cui ambito durante il primo vertice israelo-emiratino ad Abu Dhabi lo scorso 20 ottobre, è stato raggiunto un importante accordo commerciale energetico. Si tratta del Memorandum di intesa vincolante, per la collaborazione pubblico-privata nel Golfo Persico e nel Mediterraneo, finalizzata allo stoccaggio e al trasferimento di petrolio e prodotti petroliferi, tra la società statale israeliana EAPC (Europe Asia Pipeline Co.) e la MED -RED Land Bridge ldt (MRLB), joint venture tra Petromal, compagnia petrolifera emiratina, e le israeliane Lubber Line, società di investimento in infrastrutture ed energia, ed AF Entrepreneurship, società di sviluppo e gestione di progetti energetici. L’accordo, del valore stimato di 700-800 milioni di dollari con investimenti congiunti per i prossimi 10 anni, è focalizzato sugli oleodotti di 750 km di Eapc, il cui pezzo forte è quello di Eilat-Ashkelon, di capacità 600.000 barili al giorno, che attraversando 254 km di territorio israeliano, collega il Mar Rosso al Mar Mediterraneo. Il punto di forza della linea per il greggio da 42 pollici è il pompaggio bi-direzionale, affiancata da un’altra conduttura da 16 pollici, anch’essa bidirezionale, per il trasporto di prodotti petroliferi.
Israele, Iran e l’oleodotto Eliat-Ashkelon
L’oleodotto Eilat-Ashkelon, con capolinea nei due porti petroliferi di gestiti da Eapc, e aree di stoccaggio dedicate per circa 4 milioni di metri cubi di prodotto, risale agli anni ’60, costruito da una joint venture paritetica israelo-iraniana, per gestire l’esportazione di greggio verso Israele, Europa e Stati Uniti. Un sodalizio finito con il sequestro dell’infrastruttura da parte israeliana all’indomani della rivoluzione islamica iraniana nel 1979, pur continuando a ricevere petrolio iraniano fino all’incriminazione, nel 1983, da parte degli Stati Uniti di Marc Rich, magnate di Glencore. Nel 2016, dopo oltre 20 anni di arbitrato, un tribunale svizzero ha stabilito un risarcimento all’Iran di 1,1 mld di dollari, che tuttavia Israele, in base alle sue leggi, si rifiuta di pagare “al nemico”.
Per il difficile contesto internazionale in cui opera, Eapc non ha mai pubblicato bilanci, nè rilasciato informazioni sui suoi clienti. Per sfuggire al divieto di commercio emesso dai paesi arabi esportatori contro Israele per la questione palestinese, le petroliere clienti spesso hanno spento il transponder, ridipinto lo scafo, riclassificato le nave, falsificato i record di attracco, per assicurarsi una segretezza che finora ha reso troppo costoso l’utilizzo dell’oleodotto per la maggior parte delle spedizioni.
Accordo storico per un hub petrolifero
Ecco perché, rimosse le barriere politiche, il presidente di Eapc, Erez Halfon, ha definito “storico” l’accordo EAPC-MED RED Land Bridge. Esso apre un varco tra gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, con la prospettiva di potersi allargare anche ad altri paesi produttori, come Oman e Bahrein, mentre l’Arabia Saudita si è resa indisponibile a legami formali con Israele finché perdura il conflitto palestinese, sebbene i legami commerciali tra i due siano cospicuamente in crescita.
Le conseguenze per l’Egitto
In questo cambiamento di scenario, a farne le spese potrebbe essere il delicato equilibrio economico dell’Egitto, principale anello di congiunzione petrolifero tra Golfo Persico, Europa e Stati Uniti. Attualmente, la maggior parte del greggio e dei prodotti petroliferi sulla direttrice Medioriente-Mediterraneo, viaggiano in entrambi le direzioni attraverso il Canale di Suez, o in alternativa, per il greggio in direzione nord, nell’oleodotto egiziano Sumed, per il 50% della Egyptian General Petroleum Co (EGPC), per un paritetico 15% di Mubadala, fondo sovrano emiratino, Saudi Aramco e Kuwait Investment Authority, e per il 5% della Qatar Petroleum.
Sumed
L’infrastruttura, costituita da due linee parallele che percorrono 320 km, può pompare fino a 2,5 milioni di barili al giorno, e stoccarne fino a 20 milioni in entrambi i terminal, quello di carico di Ain Sukhna nel Golfo di Suez e quello di scarico di Sidi Kerir con terminal offshore a ovest di Alessandria. Sumed, che nel 2018 ha registrato un utile netto di 125 milioni di dollari, funge anche da grande serbatoio di stoccaggio per i centri di raffinazione occidentali, e gestisce mediamente circa l’80% del petrolio spedito dal Golfo Persico verso il Mediterraneo.
Il traffico petrolifero Mediterraneo-Asia
Tuttavia, come riportato dalla statunitense EIA (Energy Information Administration), dal 2016 i flussi di petrolio dal Golfo Persico in direzione Mediterraneo diminuiscono. Le cause principali sono l’espansione del mercato petrolifero statunitense in Europa, l’aumento degli export del Golfo verso Singapore, India e Cina, e le sanzioni petrolifere all’Iran dal 2018.
L’85% del petrolio del Golfo va verso l’Asia e non passa per Suez, e nel 2020, sebbene il commercio del greggio via Suez sia diminuito di circa il 9%, non è stato altrettanto per i prodotti petroliferi, aumentati di oltre il 14% per l’aumento degli investimenti globali nel petrolchimico e nella raffinazione, in particolare nel carburante diesel saudita, a bassissimo tenore di zolfo.
Con l’Europa che tende a limitare l’utilizzo dei combustibili fossili, il greggio rappresenta solo il 6,5% degli introiti della Autorità egiziana del Canale di Suez (SCA), mentre sta incoraggiando con una politica di sconti, che vanno dal 35 al 75% le spedizioni di GNL, aumentate senza precedenti a gennaio scorso dagli Stati Uniti.
Dal 2016 anche i flussi di greggio nel Sumed sono diminuiti, per l’allargamento del Canale di Suez e per l’incremento delle spedizioni verso l’Asia. Nei primi 7 mesi 2020, per il crollo dei consumi per la pandemia, tra cui quelli di carburante scesi in Europa in certi casi fino al 90%, e per i tagli Opec+ della produzione di greggio, i flussi del Sumed si sono ridotti di un quarto, arrivando a giugno e luglio a circa 700.000 barili al giorno (dato Bloomberg). Questo andamento segnala una forte riduzione dei carichi delle superpetroliere, principali clienti del Sumed, che non potendo attraversare a pieno carico il Canale di Suez per mancanza di fondale adeguato, scaricano nel terminale di Ain Sukhna per poi tornare indietro per nuovi carichi, o proseguire alleggerite per il Canale e ricaricarsi a Sidi Kerir. Buona parte del greggio che scorre nel Sumed è saudita, i cui mercati chiave sono Spagna e Italia, la cui lenta ripresa, sta facendo crescere la quantità di prodotto stoccato a Sidi Kerir.
Gli effetti dell’oleodotto israeliano su Suez
In tale contesto, il Presidente della SCA, Osama Rabie, ha additato l’impatto che l’attività dell’oleodotto israeliano Eilat-Ashkelon potrebbe avrebbe su Suez, riducendone il traffico fino al 16%, una quota che non può essere controbilanciata nemmeno dalla partnership egiziana con la Cina, benchè attutisca l’impatto di qualsiasi progetto alternativo al Canale di Suez. Dal 1° dicembre 2020 al 31 maggio 2021, per aumentare i volumi di traffico la SCA ha introdotto una riduzione del 48% sulle tariffe per petroliere di stazza superiore alle 250.000 t.
Anche secondo Eapc, l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti dovrebbe catturare tra il 12 e il 17% del business petrolifero del Canale di Suez. L’oleodotto israeliano, grazie ai risparmi di tempo, carburante e costi che offre rispetto a Suez, prevede di movimentare annualmente decine di milioni di tonnellate.
Tale concorrenza potrebbe rivelarsi molto dannosa per l’Egitto, in quanto il Canale di Suez è una delle principali fonti di valuta estera del paese, insieme al turismo e alle rimesse degli emigranti. Con il turismo che per la pandemia a stento ha fatturato 4 miliardi di dollari, falcidiato di circa il 70%, e con il rientro di migliaia di lavoratori licenziati dai paesi del Golfo, nel 2020 il Canale è stato quasi l’unica fonte di reddito estero, con oltre 5,6 miliardi di dollari di entrate, terzo risultato storico del Canale, di poco inferiore ai ricavi record 2019, di 5,8 miliardi di dollari.
I programmi di trasformazione della SCZone
Intanto, il governo egiziano prosegue i programmi di trasformazione del Canale in hub industriale e logistico globale, attirando importanti investimenti esteri. Finora in Sinai ha realizzato progetti infrastrutturali per circa 38 mld di dollari, proseguiti anche nel 2020, con l’avvio dell’ultima fase di perforazione del Canale per l’Ahmed Hamdy Tunnel 2, quinto tunnel di collegamento dei 60.000 km2 del Sinai, circa il 6% del territorio egiziano, con il resto del paese, e con l’inaugurazione dell’impianto di trattamento delle acque di Al Mahsamma, il più grande al mondo, nella città di Ismailia.
Proseguono anche i lavori di ammodernamento del porto di Arish nel Sinai del Nord, che ha già iniziato l’export di cemento, sabbia, sale e marmo nel Mediterraneo, mentre quello di Al Tor nel Sinai del Sud ha inaugurato un traffico di animali vivi. Entrambi i porti fanno parte della Zona Economica del Canale di Suez, SCZone, estesa 460 km quadrati, comprensiva di importanti zone industriali portuali, come Ain Sokhna, Port Said ed Ismailia.
Il blocco del Canale di Suez
La tempesta di sabbia e i violenti venti, che in questi giorni hanno portato alla chiusura temporanea dei porti di Alessandria e di Dekheila sul Mediterraneo e di altri 4 sul Mar Rosso, hanno causato l’arenamento della portacontainer Ever Given di 400 metri nel Canale di Suez. Il blocco che ne è scaturito condiziona il mercato petrolifero, che già ha avuto una prima reazione il giorno dopo l’incidente, con il rialzo dei prezzi di petrolio e bunker marino. Secondo Vorexa, società di intelligence energetica, 10 petroliere che trasportano 13 milioni di barili di greggio mediorientale verso nord sono bloccate, mentre in direzione sud, secondo Argus Media, sono in coda 5 suezmax (capacità 1 milione di barili) cariche di greggio, 2 di olio combustibile, due navi cisterna di nafta e una aframax (capacità 750.000 barili) di olio combustibile. Il protrarsi del blocco porterà a un congestionamento che ridurrà il numero delle petroliere disponibili per nuovi carichi, facendone aumentare i noli. La situazione, seppur potrebbe favorire l’oleodotto Sumed per i carichi di greggio verso nord, potrebbe diventare una spinta propulsiva per l’oleodotto israeliano Eapc, che a differenza del Sumed, è bidirezionale.
Le spedizioni petrolifere USA, Russia, Caucaso verso l’Asia
Dai dati EIA, le spedizioni di greggio e prodotti petroliferi statunitensi e russi verso l’Asia sono in costante aumento, più che raddoppiate dal 2016 al 2018, con la Russia che svetta al primo posto con una quota di traffico del 24%, e con la produzione libica in ripresa. Finora questo traffico è passato per il Canale di Suez, ma potrebbe dirottarsi verso l’oleodotto Eapc, con il vantaggio aggiuntivo che sia Ashelon che Eliat possono ospitare le petroliere VLCC, troppo grandi per Suez, che trasportano fino a 2 milioni di barili di petrolio.
Negli ultimi anni Eapc ha intercettato pochissime petroliere, principalmente provenienti da Russia, Azerbaigian e Kazakistan e dirette verso l’Estremo Oriente, ma nei primi due mesi dell’anno ad Eilat sono già attraccate 9 petroliere, e le aspettative di movimentazione dopo l’accordo israelo-emiratino sono di almeno 30 milioni di metri cubi annui nel porto di Eilat e l’arrivo di circa 120 navi.
Impatti ambientali disastrosi
Ma non è tutto oro quel che luce. Gli ambientalisti israeliani si sono già organizzati per impedire l’attuazione del Memorandum, che mette a repentaglio l’equilibrio della barriera corallina e confligge con gli impegni assunti da Israele per la lotta contro il cambiamento climatico. Anche 250 scienziati hanno firmato un documento contrario al progetto, mentre si sollevano le proteste della popolazione di Eilat. Eapc più volte è salita nelle cronache israeliane: nel 2014, per il disastro ambientale nella riserva naturale desertica di Ein Evrona, il peggiore della storia israeliana, causato da una rottura dell’oleodotto, e nel 2017, per la fuoriuscita di petrolio nei pressi di 3 impianti di desalinizzazione a largo di Ashdod, che li ha fatti chiudere per 3 giorni. Il 75% dell’acqua potabile di Israele dipende dai 5 impianti di desalinizzazione del paese e recentemente la maggior parte delle spiagge mediterranee israeliane sono state chiuse al pubblico per oltre 2 settimane per grandi quantità di catrame riversatisi a riva. Intanto, il Ministero della Protezione Ambientale ha annunciato l’apertura da parte della Green Police di una indagine penale sulla perdita di carburante a fine 2020 da un serbatoio della Eapc. A novembre scorso i residenti della città costiera di Ashkelon, lamentavano cattivi odori, procurati da un guasto di un contenitore di greggio Eapc, con fuoriuscita di emissioni a forte concentrazione di benzene.
Giovanna Visco
Per approfondire, su questo blog:
L’Egitto cresce in logistica ed entra nel sistema TIR
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Foto di copertina: molo petrolifero Eilat