L’Indonesia è formata da oltre 17.500 isole e nel Borneo, la più grande isola asiatica, possiede una vasta riserva di bauxite. Quarto paese più popoloso della Terra (dati 2010), è una repubblica democratica presidenziale a maggioranza mussulmana. Il divieto di esportazione di bauxite deciso dallo Stato sovrano, in vigore ininterrotto da gennaio 2014, ha drasticamente inciso sugli approvvigionamenti della Cina, che nel 2013 aveva importato dall’Indonesia il 65% del suo fabbisogno, scatenando una bufera sui mercati internazionali della commodity e dell’alluminio primario (vedi due articoli precedenti). Ma non solo. Infatti, ha anche aperto un periodo di transizione economica interna molto pesante.
Nei primi nove mesi dal divieto, il paese ha registrato un calo del 25% dell’industria mineraria e un tasso di crescita fermo al 5,1%, il più basso dalla crisi globale finanziaria del 2009. Tuttavia dopo quasi un anno sono già 6 i progetti approvati dal governo indonesiano per la costruzione di impianti di raffinazione della bauxite con capitali stranieri. Molti di essi saranno pienamente operativi entro il 2017, tra cui una società del valore di 1,2 miliardi di dollari tra l’indonesiana Harita e China Hongqiao Group Ltd nel West Kalimantan del Borneo. Dai dati del Dipartimento dell’energia e delle miniere, in pochi mesi in questa regione sono stati estesi permessi di scavo ed estrazione mineraria per altri 6,4 milioni di ettari.Ma l’atteggiamento dell’Indonesia, che segna un passaggio storico epocale di emancipazione dai modelli economici colonialistici scelti dai grandi gruppi economici globali, non è un caso isolato. In diversi paesi africani sono in atto restrizioni sullo sfruttamento minerario, soprattutto per il gas ed il greggio, mentre il Sud Africa sta sviluppando un programma di nazionalizzazione mineraria.
Diversi Stati latinoamericani stanno trattenendo quote di produzione o imponendo tasse; e paesi come Zimbabwe, Venezuela, Congo e Bolivia stanno espropriando quote di produzione di materie prime estratte nei loro paesi. Ma ci sono transizioni anche cruenti, come in Libia, in cui uno dei fattori principali della terribile guerra civile in atto, è stata la rivendicazione delle regioni a maggiore riserva di greggio, di una quota dei proventi di estrazione e una maggiore autonomia amministrativa territoriale (vedi nel blog Argomenti Paesi Arabi per approfondire). Il ritorno economico alle popolazioni che vivono nei paesi dai quali si ricavano commodity di ogni genere, non è l’unica complessità collegata a queste attività, pur necessarie. Infatti, si sono aperte forti problematiche ambientali sulle quali non è più possibile chiudere gli occhi.
E’ ancora troppo prevalente il ricavo dei profitti immediati attraverso il tenere bassi i costi di produzione, generando insopportabili costi immediati per le comunità e le specie viventi, e costi di breve, medio e lungo periodo per l’intero pianeta. Il cambiamento degli atteggiamenti politici dei governi dei paesi possessori di risorse naturali, in termini di grandi spazi coltivabili e di giacimenti minerari, dimostra che hanno fatto un salto economico ma non culturale. Il modo di affrontare la crescita dei PIL non contabilizza ancora i costi altissimi di sfruttamento inefficiente e inquinante delle risorse e di industrializzazione senza regole. Non si può negare che primeggi un pensiero molto primitivo nelle Borse di tutto il mondo, che potrebbe, tuttavia, fare un salto di qualità se gli Stati sovrani imponessero regole di civiltà. Questa responsabilità storica, tuttavia, ancora non è così evidente.La bauxite, ad esempio, è una commodity molto impattante. La sua estrazione in molti casi non viene accompagnata da un progetto di rimboschimento o riforestazione, lasciando un deserto rosso senza vita, ed inquina le falde acquifere, se non vengono prese adeguate misure di salvaguardia. Anche la fase successiva di lavorazione del minerale per la produzione dell’allumina, da cui si ottiene l’alluminio primario, comporta una forte problematica attinente lo smaltimento dei fanghi rossi. Tossici e cancerogeni per tutta la catena alimentare, sono stati per anni smaltiti direttamente o con navi tanker in mari come quelli del Mediterraneo o nei fiumi e ancora lo si continua a fare in moltissimi giacimenti in funzione del mondo.
Dal Financial Post, la compagnia Karya Utama Tambang Jaya, concessionaria mineraria di 8.878 ettari di terreno, sta estraendo in 78 ettari fuori concessione. La società fa parte del gruppo Harita, che, da fonte JakartaGlobe, è concessionaria nel West Kalimantan del Borneo di 26 permessi minerari per oltre 350.000 ettari con una riserva di 700 milioni di tonnellate di bauxite. Secondo il RPHK (Relawan Pemantau Hutan Kalimantan) una NGO di monitorizzazione ambientale afferente al WWF Indonesia, questa grave infrazione non è un episodio isolato e lancia un allarme per la salvaguardia del Borneo, uno delle più importanti foreste pluviali del globo, che non ha ancora regole e controlli adeguati di protezione delle aree vincolate.
Dal divieto indonesiano di esportare bauxite iniziato a gennaio 2014 per stimolare gli investimenti stranieri infrastrutturali e industriali nel paese, altri competitor avanzano. Dall’Africa all’Asia alla Russia al Mediterraneo, si stanno pianificando nuove produzioni minerarie, sotto la spinta della risalita della commodity e delle compagnie minerarie cinesi, che stanno contrattualizzando nuovi giacimenti alternativi. Da Radio New Zealand, recentemente le Fiji hanno approvato
l’apertura di una seconda miniera di bauxite nella provincia di Bua. Il concessionario è la compagnia cinese XINFA Aurum Explorations Limited, che già opera in quella inaugurata nel 2011, in via di esaurimento dopo aver prodotto 1,2 milioni di tonnellate di bauxite, tutti portati in Cina.
Intanto, la Malaysia, che nel 2013 l’aveva rifornita con circa 160.000 tonnellate di bauxite, da gennaio a novembre 2014 è schizzata a 1,3 milioni. Un sassolino nel grande stagno della Cina, che ha una domanda complessiva da 120 milioni di tonnellate, ma destinato a crescere pesantemente secondo alcuni rumours. Entro il 2015 le forniture malaysiane arriveranno a 10 milioni di tonnellate e raddoppieranno nel 2016. La produzione è concentrata nel regione del Kuantan, che sta producendo ad un ritmo medio di 10.000 tonnellate al giorno (3,6 milioni annue), nonostante le enormi difficoltà procurate dalla stagione delle piogge. In Cina nella provincia di Shandong, dove sono concentrate le raffinerie per la produzione di allumina, sono già 4 gli impianti che lavorano la bauxite proveniente dalla Malaysia, mentre altri stanno per aggiungersi. Il vantaggio commerciale della Cina è la breve distanza geografica che abbatte tempi e costi del trasporto marittimo dei carichi, lo stesso che otteneva dalla Malaysia. In tutti i casi, le raffinerie cinesi restano in una condizione di sovracapacità produttiva per la scarsità del minerale, che ha fatto lievitare l’import di allumina in Cina del 60%, facendo prevedere a banche come Goldman Sachs un possibile blocco dell’industria dell’alluminio cinese. Ma la voracità cinese non è solo oggetto di desiderio ma anche di contestazione. Da fonte The Hindu nell’est di Ghats, in India, continuano le proteste contro la decisione governativa di allargare le attività minerarie nelle riserve di bauxite del paese. Secondo i contestatori la produzione attuale è sufficiente a soddisfare la domanda domestica di alluminio. L’impatto di nuove esplorazioni su vasta scala, per soddisfare la domanda estera cinese che intende nel contempo proteggere le proprie riserve, priveranno la popolazione che ora vive su quei territori, i Girijans, delle proprie case e dei mezzi di sussistenza.
L’India ha complessivamente una riserva di bauxite di 3,48 miliardi, di cui il 18% nel Naidu (fonte Alcircle. Con il plauso di GB e USA, il governo ha deciso di togliere alcune limitazioni all’estrazione mineraria nell’area. Alcuni ritengono che l’industria indiana dell’alluminio con queste nuove estensioni potrebbe attrarre investimenti multimiliardari, con nuova occupazione e 25 miliardi di dollari di PIL in 15 anni. Tuttavia evidenti guasti ecologici procurati dai fanghi rossi in passato hanno già ostacolato progetti industriali di alluminio nella regione Indiana Eastern Ghats, spingendo alcune raffinerie indiane ad approvvigionarsi della materia prima da altri paesi come la Guinea. L’Australia, che a marzo scorso è svettata al primo posto tra i fornitori della commodity della Cina, prevede nel biennio 2014-2015 un aumento in export di bauxite dell’11% a 16,8 milioni di tonnellate. Entro i prossimi tre anni aprirà tre nuove miniere nel Nord Tasmania. Lo Stato australiano sotto il profilo ambientale richiede che gli sfruttamenti minerari della bauxite siano accompagnati da programmi successivi di rimboschimento, e i conflitti che insorgono assumono altre connotazioni. Ad Aurukum una coltivazione di bauxite ha dato luogo ad contenzioso al tribunale federale tra la Glencore e i nativi Wik per il suo sfruttamento. Complessivamente i mercati si mostrano fiduciosi sul futuro della bauxite, ma l’International Aluminum Institute ammonisce che, per il rallentamento globale della crescita economica, potrebbe verificarsi un taglio della domanda di alluminio primario, la cui scorta globale in ottobre scorso ammontava a 2,5 milioni di tonnellate. Nel mezzo di tutte queste previsioni possibili un fatto reale, tuttavia, è sempre più evidente. L’industria automobilistica, uno dei principali driver dell’alluminio primario, sta passando a passo svelto dall’acciaio all’alluminio, rinnovando la rivoluzione del 1967, quando Coke e Pepsi sostituirono le lattine di acciaio con quelle di alluminio. Punte di diamante di questo fenomeno il nuovo pick up F-150 della Ford Motor e altri veicoli che, similmente, sostituiranno molte parti in acciaio con l’alluminio, lega resistente ma molto più leggera, che riduce i costi di trasporto ed il consumo di carburante. Nel 2016 la produzione dei pick up F-150 raggiungerà 850.000 unità all’anno, impiegando 350.000 tonnellate di lastre di alluminio di Alcoa, con la quale Ford ha siglato un contratto di fornitura.
Uno studio recente di Ducker Worldwide per Aluminum Association stima che entro il 2025 il 18% del corpo dei veicoli sarà in alluminio, mentre oggi è appena l’1%. Come riporta The Australian, anche la canadese Alcan del gruppo Rio Tinto che vende alluminio a General Motor, Honda Motor e Tesla Motor è molto ottimista a tal proposito. Come molti altri metalli, i prezzi dell’alluminio precipitarono ad inizio crisi 2008. Diversi produttori di alluminio primario ne tagliarono drasticamente le quantità, sia per il collasso della domanda globale che per l’incremento della produzione cinese che avevano sottostimato. Rio Tinto Group, ad esempio, che per 38 miliardi di dollari aveva acquisito Alcan portandola nel 2007 ai vertici di mercato, sotto i colpi della crisi ha subito una svalutazione dei titoli per 25 miliardi di dollari. Ma adesso le nuove prospettive aperte dal mercato automobilistico fanno ben sperare. Dopo un periodo di austerità, Rio Tinto per rispondere alla domanda degli investitori si sta concentrando in pochi mercati in cui spendere il proprio cash. Tra questi, non a caso, la bauxite. Le prospettive aperte danno spazio anche ad imprese relativamente più piccole. La ASA – American Specialty Alloys Inc. ha recentemente annunciato nel sud-est degli USA la costruzione del valore di 1,2 miliardi di dollari di una nuova fabbrica per la produzione, entro il 2017, di 600.000 tonnellate annue di lastre di alluminio in rotoli, dedicata interamente all’industria automobilistica. I suoi vertici hanno fatto sapere che non era stata neanche ancora annunciata la location della fabbrica che già erano stati firmati i primi contratti con alcuni clienti. Alcoa ha adeguato con cospicui investimenti le linee di alcuni stabilimenti statunitensi per aumentarne la produzione di alluminio adatto alla produzione automobilistica. In depressione dalla crisi del 2008, il suo listino dei prezzi è quasi raddoppiato negli ultimi 12 mesi soprattutto per l’aspettativa sulla domanda di alluminio dell’industria automobilistica. Entro il 2015 Alcoa prevede l’85% dei veicoli con cofani di alluminio, dal 33% di oggi, e una crescita di altre parti in alluminio nei prossimi 10 anni. Intanto, il settore di produzione dell’acciaio affila le armi nel tentativo disperato di introdurne una tipologia più innovativa ed avanzata che metta all’angolo l’alluminio. Sarà uno scontro tra titani, il cui vincitore sarà impalmato dalle case automobilistiche.
Giovanna Visco
NB: questo articolo è stato scritto il 17 dicembre 2014