Hanno fatto il giro del mondo le immagini dell’enorme deflagrazione di 2.000 tonnellate di nitrato di ammonio, il carico di una nave sequestrato 6 anni prima e lasciato in un deposito del porto di Beirut, in stato di abbandono. Era il 4 agosto 2020. Una devastazione che ha falcidiato 200 vite, causato migliaia di feriti e distrutto interi quartieri della città mettendo sulla strada circa 300mila persone. Una tragedia abnorme, che ha dato il colpo di grazia alle condizioni del Libano, già molto gravi per la pandemia Covid-19 e per una profonda crisi economico-finanziaria. Pochi mesi prima, per la prima volta, il paese era entrato in default, stretto nella morsa di una svalutazione crescente della lira libanese arrivata all’85% e di una inflazione di quasi 60%. In Libano da tempo non è più garantita nemmeno la fornitura elettrica, con black out fino a 20 ore consecutive, e si registrano casi di baratto tra le persone, mentre la banca centrale continua a tagliargli i sussidi di molti beni essenziali. Inevitabilmente, con il porto è esplosa anche la rabbia dei libanesi sopraffatti dai disastri, dando luogo a proteste e assalti ai ministeri, che hanno portato alle dimissioni del governo di Hassan Diab, ora indagato sulla tragedia del porto. Da allora il paese non ha ancora un nuovo governo, nonostante gli allarmi anche del Coordinatore speciale Onu per il Libano, Jan Kubis, che ha informato il Consiglio delle Nazioni Unite che il vuoto politico potrebbe portare il paese alla catastrofe umanitaria e perfino al collasso.
Il paese ancora senza governo
Crisi bancaria, crollo valutario, aumento della povertà, debiti statali paralizzanti sono i gravi problemi del Libano, che restano abbandonati a sé stessi, per lo stallo legato al complesso sistema politico del paese, concordato alla fine della guerra civile, che prevede il bilanciamento perfetto tra cristiani maroniti, sciiti, sunniti e drusi, nella divisione delle cariche istituzionali e dei seggi parlamentari. Questo ha innescato un clima rivaleggiante tra i partiti, che non si sfidano per allargare la base del loro consenso, ma per garantirsi quello entro la propria fetta di popolazione.
Dopo un primo tentativo andato fallito sostenuto dalla Francia, il Presidente del Libano cristiano maronita ed ex generale, Michel Aoun, ad ottobre scorso ha conferito un nuovo incarico al leader sunnita Saad al-Hariri, al suo 4°governo (l’ultimo cadde un anno fa per le proteste popolari). Al-Hariri ha l’appoggio della maggioranza parlamentare, tra cui il partito cristiano fondato da Aoun, Movimento Patriottico Libero, e il blocco shiita Amal, una posizione di non intralcio di Hezbollah e tra gli oppositori il genero di Aoun, che guida il blocco cristiano FPM. Il mandato prevede la formazione di un governo tecnico riformista, che rilanci la proposta anticorruttela francese e faccia un accordo di programma con il Fondo Monetario per attivare gli aiuti esteri. A inizio dicembre, dopo complicati confronti, mentre il paese precipita, al-Hariri ha presentato finalmente una squadra di 18 ministri, ma la paralisi continua per spaccature sui nomi con il Presidente Aoun.
La Francia
Già all’indomani del 4 agosto, il presidente francese Macron aveva organizzato una Conferenza internazionale per l’emergenza Beirut, raccogliendo 300 milioni per la popolazione, ma la mancanza di un governo del paese ha determinato Francia e comunità internazionale, sembrerebbe in modo irremovibile, a inibire gli aiuti finanziari. Posizione confermata anche nella conferenza di novembre ospitata dalla Francia, in cui il Segretario Generale Onu, Antonio Guterres, ha annunciato il 3RF, piano quadro di riforme di Banca Mondiale, Unione Europea e Onu, da attivare con il futuro governo per la ripresa e la ricostruzione di Beirut, cuore pulsante del Libano.
I legami della Francia con il Libano risalgono all’indomani della dissoluzione dell’impero ottomano alla fine della prima Guerra Mondiale, quando a seguito del suo mandato su tutti i territori della Grande Siria, nel 1926 isolò dal resto l’enclave a maggioranza cristiana, dando vita alla Repubblica Libanese, rimettendo poi il mandato nel 1945, giacché il paese si era dichiarato indipendente già nel 1943, durante l’occupazione nazista della Francia.
La paralisi libanese
Il Libano è paralizzato da pratiche politiche che usano i fondi degli aiuti internazionali per gestire potere e affari, e che sono incardinate nella storia del paese, diventato terra di finanza internazionale, di rifugio dalle guerre delle popolazioni palestinesi e siriane, e di mescolanza di culture e religioni da cui è originato il suo sistema settario di gestione del potere. Il crollo finanziario dell’ex paradiso fiscale globale, ora soppiantato da Dubai, ha tolto ogni velo dal volto politico del paese: gigantesca corruzione e circa il 50% della popolazione al di sotto della soglia della povertà in una disperazione simile a quella già vissuta durante la guerra civile 1975-1990.
Ma c’è anche chi pensa che la via di uscita dalla crisi del Libano sia la ricostruzione di Iraq e Siria, una partita immensa su cui le principali potenze del mondo già stanno giocando le loro strategie geopolitiche ed economiche. Nel 2018 molti ministri libanesi avevano visitato la Fiera internazionale di Damasco per la promozione industriale in Siria, mentre il porto libanese di Tripoli veniva presentato come porta degli investimenti, processo reguardito dagli Stati Uniti.
Prima della sua esplosione, il 60% delle importazioni libanesi passava dal porto di Beirut, che ospitava anche i magazzini di stoccaggio delle scorte del Ministero della Salute per il rifornimento di farmacie e ospedali del paese, andati distrutti. Condizioni di lavoro drammaticamente peggiorate e stipendi crollati stanno causando l’esodo dei medici libanesi, finora almeno 500, molti dei quali importanti specialisti e docenti negli ospedali universitari, che come altri, stanno trovando nuova collocazione soprattutto nei paesi del Golfo e in Europa.
La Siria
Anche molti profughi siriani stanno lasciando l’immensa tendopoli di circa 1,5 milioni di persone nel nord del Libano, per rimpatriare al ritmo stimato di 400-500 persone al giorno, favoriti dal governo siriano che ha esentato i profughi svantaggiati dall’obbligo di cambio valuta di 100 dollari a persona in denaro siriano, all’ingresso del paese. Un modo per ricostruire le riserve necessarie a fronteggiare una crisi economica senza precedenti: svalutazione al suo minimo storico, impennata dei prezzi, carenze di materie prime, ma rare proteste. 80% della popolazione al di sotto della soglia di povertà, e 2,8 milioni di siriani nel nord controllato dai ribelli che vivono di aiuti umanitari sono il risultato di 9 anni di guerra, che hanno decimato 23 milioni di siriani: oltre 500mila civili uccisi, più di 1 milione feriti, 6 milioni sfollati e circa 5,6 milioni profughi, principalmente nei paesi vicini.
Dunque la Siria per ricostruirsi e riprendersi economicamente ha anche un bisogno disperato di ripopolarsi con il rientro dei profughi, sollecitato recentemente da Bashar al-Assad con una Conferenza internazionale di due giorni a Damasco (fonte Theg61), criticata da Usa e Onu, ma plaudita dalla Russia, grazie alla quale al-Assad ha preso il controllo della stragrande maggioranza del paese dopo la discesa in guerra al suo fianco nel 2015. Nel paese, che continua ad essere obiettivo militare costante di Israele con centinaia di attacchi aerei e missioni clandestine che fanno parte del Sabam, la guerra nella guerra, per impedire il trasferimento di armi avanzate a Hezbollah e annientare postazioni iraniane, il cessate il fuoco è ancora lontano, nonostante la risoluzione Onu 2254 del dicembre 2015, e nel nord e nord-est del paese continuano scontri militari alternati a tentativi di negoziazione, in cui Damasco, Russia, Turchia, Iran, Usa, Francia, curdi e gruppi di ribelli ne sono i principali attori.
Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato Usa, il regime di al-Assad ha contribuito al collasso economico libanese, avendo estratto dal paese quanta più valuta estera possibile, che ha reso i dollari molto scarsi e fatto alzare il tasso di cambio. A lungo dipendente dal sistema bancario libanese e dal contrabbando, continua a influenzare la stabilità del paese attraverso Hezbollah, unico gruppo miliziano libanese rimasto armato, in guerra contro Israele nel sud del Libano. Per quasi 30 anni la Siria ha occupato militarmente il Libano, discesa in campo su mandato della Lega Araba dopo pesanti interventi militari di Israele durante la guerra civile, da cui è stata costretta ad uscire nel 2005 dalla rivoluzione del cedro, insorta per l’assassinio dell’ex Primo Ministro libanese Rafik Hariri, fermo oppositore della presenza militare straniera nel paese.
La grave insolvenza finanziaria del Libano ha aperto il mercato domestico all’inondazione di prodotti siriani e iraniani e dato maggiore spazio a Hezbollah, mentre gli interventi di Trump contro l’Iran e il varo del Caesar Act che sanziona il regime siriano e chiunque a qualsiasi titolo lo sostenga, con il coinvolgimento di diversi soggetti libanesi come la Jammal Trust Bank, ha fatto aumentare le divisioni nel paese.
Secondo Bashar al-Assad, invece, i problemi economici siriani sono causati essenzialmente dalle banche libanesi, che nell’ultimo anno hanno imposto severe restrizioni ai prelievi in valuta con conseguenze enormi sui depositi siriani, che ammonterebbero tra i 20 e i 40 miliardi di dollari. Fino al 2019, come riporta Al Monitor, l’economia libanese era strettamente intrecciata con il settore privato siriano in parte legato al governo, tanto da suscitare anche l’interesse russo: il Libano era la patria di varie società di comodo siriane, e le sue banche erano zeppe di soldi di imprese siriane e di conti nascosti per aggirare le sanzioni internazionali al regime di al-Assad.
Ma ormai la crisi è tale che anche le sanzioni statunitensi hanno perso efficacia.
La linea di confine marittimo Libano-Israele
Mentre la terra ribolle nel caos, dal lato mare invece, l’accordo quadro giunto dopo 10 anni di mediazione statunitense, ha consentito lo scorso ottobre di avviare i negoziati tra il Libano ed Israele, patrocinati dall’Onu, per stabilire la linea di demarcazione dei loro confini marittimi. A spingere sul rush finale il collasso economico libanese che ha rafforzato l’idea che i negoziati potenzialmente potrebbero incanalare miliardi di dollari in Libano, determinando Hezbollah a togliere il veto, anche per evitare accuse di ostacolare la capacità del paese di uscire dalla crisi.
Un percorso che dovrà fissare la linea marittima in modo molto preciso, per dare certezza alle licenze e concessioni offshore, trovando la quadra tra due richieste opposte: Israele rivendica la metà del confine marittimo che comprende il blocco 9, che apparterrebbe al Libano, pronto a difenderlo per tutto il negoziato, come dichiarato dal ministro Charbel Wehbe pochi giorni fa. Al momento ci sono solo due certezze: il punto di origine terrestre a Rosh Hanikra e il punto più occidentale a mare a 200 miglia nautiche dalla costa. Nel mezzo lo scoglio dei negoziati: Israele disegna una linea che si inclina verso nord, il Libano invece verso sud, facendo emergere così una zona triangolare di circa 860 km quadrati oggetto di zone economiche esclusive e suddivisioni in blocchi che si stimano ricchi di gas e olio.
L’avvio dei negoziati, tenendo conto che Israele e Libano sono ancora in uno stato di guerra e non hanno relazioni diplomatiche, ha avuto forte risonanza in Libano, tra chi ha applaudito e chi invece lo ha considerato una sorta di normalizzazione dei rapporti con Israele, dovuta alla debolezza libanese messa sotto pressione dagli Stati Uniti; per alcuni osservatori invece vi sarebbero importanti risvolti politici di rafforzamento del rapporto di Israele con il Libano che porterebbe maggiori difficoltà alla escalation al confine di Hezbollah, e di riconquista di un ruolo importante nel Mediterraneo degli Stati Uniti.
Il confine terrestre Libano-Israele
Resta invece una ferita aperta la questione dei confini terrestri tra i due Stati, che colloqui bimestrali tra forze armate libanesi LAF, israeliane IDF e Onu UNFIL, istituiti da un meccanismo trilaterale nel 2006, non riescono evidentemente a risolvere. Attualmente l’area Sheba’a Farms costituisce la principale ragione di scontro: una striscia di 14 km e larga 2, con 14 fattorie abbandonate, occupate da Israele dal 1967 con il Golan. All’indomani del ritiro israeliano dal sud del Libano, nel maggio 2000, a fronte di sanguinosi attacchi di Hezbollah, l’Onu stabilì la Linea Blu, in assenza di un confine terrestre ufficialmente riconosciuto ed accettato, in cui le Sheeba Farms ricaddero sul lato israeliano, che invece il Libano ritiene proprie in quanto storicamente afferenti alla sua pubblica amministrazione. Israele invece afferma che la striscia fa parte del Golan e per estensione dell’ex territorio siriano, così come lo intenderebbe anche l’Onu, ma non la Siria. La questione si è poi complicata ulteriormente con l’intervento di Trump, che il 25 marzo 2020 ha riconosciuto l’annessione nel 1981 di Israele del Golan, che la comunità internazionale non aveva mai approvato.
Intanto a Beirut ancora manifestazioni dopo l’annuncio di ulteriori tagli ai sussidi governativi per farina, carburanti, farmaci, e la situazione si fa sempre più allarmante, con pochi margini di azione per la banca centrale.
Giovanna Visco
Foto di copertina di UNOCHA
Questo articolo è stato pubblicato anche da ShipMag
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