Il reddito petrolifero copre il 97% dei guadagni valutari dell’Algeria e il 60% del budget di bilancio del governo. La stima di crescita del Paese del Fondo Monetario Internazionale è 4%, ma dopo 15 anni consecutivi di attivo della bilancia dei pagamenti, è ad un passo dal giro di boa. Con la produzione di greggio in declino – da calcoli Bloomberg l’Algeria è il 9° produttore mondiale con 1,1 milioni di barili al giorno (bpd – barrel per day), con trend in discesa dal 2007 anno del suo massimo produttivo di 1,4 milioni bdp – e prezzi al consumo più bassi che aumentano la domanda, l’import algerino sta per superare il suo export. Un problema serio per l’Algeria, che con i proventi dell’esportazione energetica, oltre a garantire case e scuole, sovvenziona il 21% della produzione annuale economica del paese e mantiene bassi i costi di elettricità, di diversi generi alimentari e della benzina, che è la più economica di tutto il Nord Africa. Quasi il 60% dei posti di lavoro algerini sono pubblici, e quasi tutto quel che occorre è importato.
L’agitazione sociale, che corre costantemente nei paesi arabi prodotta essenzialmente dal conflitto tra potere centrale dello Stato e i numerosi gruppi di profonda tradizione e cultura identitaria che vivono in autonomia negli sconfinati territori desertici, trova il suo principale terreno di scontro nello sfruttamento commerciale delle risorse dei territori e nella distribuzione della ricchezza, suscitando le proteste di città e villaggi.
La pace sociale algerina è stata costruita negli anni con una forte spesa pubblica, che elargisce paghe più alte e promette case, ancorandosi sugli abbondanti introiti provenienti soprattutto dalla vendita all’estero di olio. Ma la caduta del suo prezzo di mercato apre una falla profonda di medio e lungo periodo nel sistema di gestione sociale algerino, inducendo molti politici a caldeggiare un’ondata di riforme.
Il tutto è aggravato dal problema della sicurezza, che ha scoraggiato le compagnie internazionali a partecipare alle gare statali di aggiudicazione delle concessioni di sfruttamento commerciale delle risorse energetiche. L’esodo si è manifestato massicciamente a partire dal gennaio 2013, dopo un grave e mortale attacco terroristico a In Amenas, nel campo estrattivo di gas convenzionale operato congiuntamente dalla norvegese Statoil, dalla britannica BP e dalla compagnia statale algerina Sonatrach . L’attacco portò alla chiusura dell’impianto, che produceva l’11,5% della produzione algerina e copriva il 2% degli import di gas naturale dell’Europa. LA sua riapertura è stata decisa da Statoil solo a settembre 2014, dopo la verifica di implementazione di tutte le misure di sicurezza, concertate con le autorità algerine.
Più in generale, il governo per contrastare estremisti e trafficanti di armi, soprattutto lungo i confini con Niger e Libia, sta impegnando l’esercito algerino in operazioni militari su vasta scala, che ha portato alla recente uccisione da parte dei militari di Gouri Abdelmalek, leader del gruppo Caliphate Soldiers fedele all’ISIS e responsabile della decapitazione di un turista francese in settembre scorso.
È soprattutto il confine con la Libia ad imporre misure estreme di sicurezza, nonostante le importanti iniziative diplomatiche algerine, appoggiate da ONU, Unione Africana, paesi della regione e USA, per favorire il dialogo tra le parti, unica via possibile per la costruzione della riconciliazione nazionale, come sottolineato dal Ministro degli Esteri algerino Ramtane Lamamra. Ma la ricerca di soluzioni politiche, al punto in cui è giunta la Libia, richiede tempo, mentre si manifestano minacciosi, nelle aree di confine, rigurgiti della guerra civile libica e dell’instabilità del Mali. Il governo algerino recentemente ha adottato misure di sicurezza aeronautiche per il controllo dei confini, trasferendo anche oltre 8000 militari al confine Est con Libia e Tunisia e altri circa 5000 al confine con il Mali.
A tali turbolenze si aggiungono i flussi migratori sub-sahariani, che si riversano nelle principali città algerine del Nord e del Sud. Tuttavia, i segnali di ribellione in atto in tutto il paese hanno origini sostanzialmente interne, che riguardano soprattutto la distribuzione della ricchezza, che potrebbero degenerare in vere e proprie rivolte, come quelle che a partire dal 1988 portarono all’adozione di una nuova costituzione e all’introduzione del multipartitismo, spostando il paese da un modello socialista verso uno occidentale, ma anche a 19 anni di lotta sanguinosa tra fazioni. Nonostante il lavoro dei partiti per la costruzione di una identità nazionale, soprattutto di quello di maggioranza relativa nel paese (e unico fino al 1989), il Fronte Nazionale di Liberazione, nelle attuali ondate di protesta emergono istanze regionalistiche, che costituiscono un elemento nuovo nello scenario politico algerino, che ha caratterizzato la lotta per l’emancipazione dal colonialismo francese con una forte identità nazionale.
Tra gli algerini alberga un sentimento generale che pensa che lo Stato sia ricco, ma è monopolizzato da alcune aree , e che quindi sia giunto il tempo di prendersi i propri diritti con la forza della protesta. Dal canto suo lo Stato non mostra di avere una visione politica complessiva, soprattutto per la corruzione dilagante degli apparati pubblici, che ha scosso persino le fondamenta della Sonatrach, e per il temporeggiare nel rispondere al problema sollevato dalla malattia del Presidente Abdelaziz Bouteflika.
Alle proteste di città e villaggi anche di quelli storicamente molto tranquilli, l’autorità sta rispondendo localmente con bastone e carota, alternando elargizioni alla violenza della polizia sui dimostranti, che spesso procura ferimenti, morti e arresti. Tra i territori in rivolta c’è anche Hassi Messaoud nella provincia di Ouargla, dove vi sono giacimenti petroliferi ed il governo è accusato di non aver dato lavoro ai residenti locali, ma ad algerini di altre aree, e Touggourt nel sud-est del paese a 620 km dalla capitale, dove le proteste di gruppi di diverse posizioni politiche o religiose sono state pesanti, per la casa, il lavoro e i servizi di base quali elettricità, gas e sanità. Il pericolo principale di queste proteste è il loro dilagare orizzontale, basato sull’esperienza accumulata in 150 anni di protesta contro colonizzatori e governanti.
Giovanna VIsco
NB: questo articolo oè stato scritto il 4 gennaio 2015