8 marzo: di quale giornata parliamo?

È ormai da qualche anno che la giornata dell’8 marzo è sempre più un iconico rimbalzo delle donne che nel mondo del lavoro svolgono ruoli o compiti di tradizionale appannaggio maschile. Si distribuiscono medaglie virtuali al valor femminile, segno di quanto la cultura dominante sia ancora profondamente maschiocentrica, celando o non mettendo sufficientemente in evidenza gli enormi sforzi e sacrifici, che ogni donna, che  non intenda la propria vita predestinata all’ufficio di “angelo del focolare”, deve sostenere per costruirsi una vita di persona indipendente e autodeterminata, socialmente riconosciuta e accettata.

In un mondo del lavoro in cui, anche per i trasporti e la logistica, esistono casi in cui non sono assicurati neanche servizi igienici decenti per gli uomini e ancor meno per le donne, un problema molto grave che assilla la vita di 2 miliardi di persone nel mondo ricordato dall’ONU ogni 19 novembre nella giornata internazionale per i servizi igienici, World Toilet Day, lo spazio conquistato dalle donne ha un sapore darwiniano, risultato di una selezione selvaggia di forze naturali, che spesso richiede da parte delle donne dosi massicce di  ostinazione, preparazione, intelligenza, in misura ben superiore a quelle necessarie a una persona di sesso maschile.

E’ un sottaciuto farsi valere quotidiano, incastrato tra le maglie del paternalismo protettivo dei colleghi maschi, che diventa sagra nei giorni intorno all’8 marzo, con un tripudio di immagini, frasi e commenti sui social, che esprime un sentire comune di donne e uomini molto distante da un vero cambiamento di progresso e civiltà.  

Come sottolineato da più parti, costruire una cultura di rispetto delle donne in quanto persone, che includa la diversità femminile in tutte le espressioni organizzative della vita umana, espande enormemente le possibilità del vivere comune, come dimostrano le tante esperienze di arricchimento laddove gli universi monocordi dei serragli maschili sono stati sconsacrati.

Ma costruire richiede atti concreti, a cominciare dalla realizzazione dei servizi pubblici, in primis quelli  di cura e assistenza. Pochi giorni fa, il Presidente del Consiglio Mario Draghi non a caso ha sottolineato l’urgenza degli asilo nido, le infrastrutture sociali che più di altre consentono alle donne di non vivere il conflitto tra la capacità di procreare, il proprio lavoro e la carriera. Abbattere la disputa, tutta culturale, tra maternità, lavoro e vita personale, dando strutture sociali idonee a rendere libere le donne di esprimere le proprie potenzialità, è un punto fondamentale anche per affrontare la gravità assoluta dell’invecchiamento senza precedenti della nostra società, frutto della bassa natalità, che comporta gravissimi problemi politici, economici e sociali, immediati e futuri.

Le carenze, se non l’assenza assoluta come in molte parti del Sud Italia, delle infrastrutture sociali sono le principali responsabili alla base della diseguaglianza retributiva tra uomini e donne, il cosiddetto gender pay gap. Il fenomeno è presente in tutto il mondo e in tutti i settori: uomini e donne che svolgono lo stesso lavoro anche nella medesima azienda, ma che a fine mese non ricevono la stessa paga. Causa principale è il ricorso in modo preponderante delle donne al part time: nell’Italia ante Covid-19, nel 2019 l’Istat ha rilevato che oltre il 73% dei part time sono state donne.

Part time e mancanza, nella stragrande maggioranza delle aziende, di politiche del lavoro che prevedano sistemi di supporto e inclusione del dipendente, spesso donna, costretto ad un allontanamento fisico temporaneo dall’azienda, creano ostacoli spesso insormontabili alla carriera e all’avanzamento professionale delle donne. In altri termini, le donne ancora una volta pagano pegno per responsabilità su cui non hanno il controllo.

Anche i numeri del Rapporto sulle donne ai vertici delle imprese 2020, elaborato da Cerved e Fondazione Marisa Bellisario in collaborazione con l’Inps, ne confermano carriere striminzite. Infatti, lo studio, che analizza l’impatto delle quote rosa previste dalla legge Golfo-Mosca 120/2011 per le aziende quotate in Borsa e dal dpr 251/2012 per le partecipate della PA, non mostra un quadro smagliante. Sebbene per la prima volta la presenza femminile nei board delle quotate sia arrivata ad almeno 1/3 del totale dei membri, la sua crescita nel 2019 si è quasi arrestata, con solo 2 unità in più rispetto al 2018.

Le donne in Cda sono risultate oltre il 36% nelle aziende quotate, ma in quelle non soggette alla legge 120/11 la percentuale scende in picchiata a circa il 18%, mentre nelle controllate della PA si attestano al 28%, anche per effetto dell’aumento delle società pubbliche con Amministratore Unico che non hanno obbligo di quote rosa. Per quanto riguarda i massimi ruoli apicali, nel 2019 solo 14 donne erano AD, pari al 6% del totale, e solo 24 Presidenti di Cda, pari al 11%. In poche parole, lo studio non lascia dubbi:  non si è andato molto oltre il minimo di legge, e soprattutto, non c’è stato l’effetto a cascata sperato sul resto delle imprese e sulle condizioni delle lavoratrici.

Guardando al mondo dei trasporti, sugli 11 milioni di lavoratori del settore censiti dalla Unione Europea, solo il 22% sono donne.

Un recente sondaggio sullo smart working, coordinato dalla Segretaria nazionale del sindacato Uiltrasporti, Francesca Baiocchi, su una platea di oltre 700 lavoratori, ha evidenziato una forbice del 21% tra uomini (60,5%) e donne (39,5%), sulla disponibilità a protrarre nel tempo il lavoro agile. Tale  disparità nel terziario dei trasporti, segnala evidentemente, insidie nascoste. Lo smart working, oggi soluzione emergenziale, ma domani possibile espressione strutturata dell’organizzazione del lavoro, ha bisogno di analisi approfondite, per impedire che si trasformi in un ulteriore ostacolo ai percorsi professionali delle donne.

In generale, la pandemia Covid-19 ha bruciato maggiormente posti di lavoro a prevalenza femminile il cosiddetto she-cession: secondo i dati della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, nel secondo trimestre 2020 su 100 posti persi il 56% erano occupato da una donna, coinvolgendo  470.000 lavoratrici. Per la maggior parte si è trattato di occupazione a termine, autonoma, o in part time nei settori della assistenza domestica, della ristorazione e del turismo.

Un dato che fa riflettere se si considera il settore marittimo delle crociere. Da stime IMO, International Maritime Organization, le donne sono circa il 2% dei circa 1,2 milioni di marittimi imbarcati, e una ricerca della Maritime HR Association del 2017, evidenzia che solo il 7% delle donne sono ufficiali contro il 42% degli uomini, ma ancora l’IMO ci dice che il 94% di tutte le donne imbarcate sono impiegate nel settore crociere con varie mansioni. Quindi la crisi delle crociere ha lasciato a casa moltissime donne.

C’è anche chi sostiene che le donne che operano nel settore trasporti e logistica, sconterebbero una scarsa propensione allo studio delle materie scientifiche. Tuttavia, in Italia, secondo Alma Laurea, le donne sono quasi il 60% dei laureati, ed i dati Cerved-Fondazione Belisario ci dicono che nel mondo universitario sono donne il 47% dei ricercatori a tempo indeterminato, il 38% dei professori associati, ma solo il 23% dei cattedratici ordinari. Qualcosa evidentemente non quadra.

Il Rapporto Donne di Manageritalia, elaborato annualmente su dati Inps, offre alcuni elementi interessanti. La Federazione nazionale dirigenti, quadri e professional del commercio, alberghi, trasporti, logistica e agenzie marittime del settore privato, nell’edizione 8 marzo 2021 su dati 2019, gli ultimi disponibili, conferma un costante trend di crescita di donne tra i dirigenti delle imprese private, che supera il 18%, in linea con quanto rilevato dal Cerved-Fondazione Belisario. Quello che è interessante è la distribuzione di questa percentuale all’interno delle fasce di età: nella fascia under 35 anni, le donne manager superano il 32%, in quella 35-under 40 raggiungono quasi il 28%. Ciò evidenzia un dinamismo tra le generazioni femminili più giovani, che lascia intravedere cambiamenti  positivi per il futuro.

Le regioni più rosa sono risultate Molise 30%, Sicilia 25,5% e Lazio 24%, seguite al 20% da Basilicata e Lombardia, che ha 10.171 dirigenti donne, il 48% del totale nazionale, trainate da Milano, con 8.251 donne, il 39% del totale nazionale di 21.095, contro 94.246 maschi. Le regioni con quote rosa al di sotto del 10% sono Abruzzo e Trentino Alto Adige.

Per quanto riguarda i quadri d’azienda, che rappresentano un bacino naturale di futuri dirigenti, le donne sono oltre il 30% a livello generale, ma ancora una volta sopravanzano la media nazionale le under 35 con il 37% e le under 40 con oltre il 34%.  Lazio (35%) Sardegna (34%) e Lombardia (32%) sono risultate, in questo ambito,  le regioni italiane più rosa.

Relativamente ai contratti gestiti da Manageritalia, dal 2008 al 2020 i dirigenti in generale sono cresciuti di circa il 15%, ma le donne dirigenti del 50%. A dicembre 2020, esse risultavano il 22% del totale dei dirigenti.

Le Nazioni Unite, tra gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile entro il 2030, hanno posto quello della piena parità tra i sessi: mancano solo 9 anni, ma tutto indica che c’è veramente ancora molto da fare.

                                                                                       Giovanna Visco

1 comment

  1. il mio commento,tardivo,si riferisce all’articolo su l’8 marzo,che penetra con sguardo tagliente e appassionato nella condizione femminile,la cui analisi,ampia e rigorosa,é documentata con scrupoloso supporto di dati..grazie.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *