La crisi del Niger

Prologo

C’è un vento sempre più forte che soffia sull’Africa. Dissemina istanze di indipendenza e di autodeterminazione, alimentato soprattutto dai giovani africani, che guardano al futuro. Sanno che i loro paesi producono ingenti ricchezze detenute da altri, e rivendicano proprietà e controllo delle risorse per combattere la schiavitù da povertà e miseria, che opprimendo milioni di africani, costringe i più intraprendenti a emigrare lontano, verso altri continenti. L’Occidente vuole ciò che l’Africa possiede, ma non gli africani, che poi ne sarebbero i legittimi proprietari. Per questo sponsorizza regimi compiacenti, disloca eserciti militari, e si spende in aiuti che impongono modelli estranei, strangolando i popoli con la dipendenza e il debito. In tale contesto, l’emigrazione appare come unica risposta disponibile, pagata al prezzo dello spopolamento di intere regioni, con cui si riempiono numerose bidonville urbane, da cui  giovani e giovanissimi scappano. La loro fuga sarà un lungo viaggio verso l’incognito, costellato di indicibili sacrifici e sofferenze, durante il quale riuscire a non perdere la vita nel Sahara, nei centri di detenzione nordafricani o nel Mar Mediterraneo è una sorta di lotteria, che contrassegna l’epilogo di un genocidio silenzioso, che sta creando ricchi immensi spazi vuoti, a disposizione dello sfruttamento straniero.

Il Sahel

Il Sahel è una vasta fascia geografica di transizione geoclimatica, che va da ovest a est del continente africano, dalla costa atlantica al Mar Rosso, tra il deserto del Sahara e le savane dei paesi equatoriali. In varie dimensioni, corre sui territori di 13 Stati africani: Mauritania, Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger, Algeria, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan, Eritrea. Sotto il profilo socioculturale è una terra di mezzo, porosa e permeabile, dove l’interazione tra le popolazioni travalica i confini degli stati nazionali, scaturiti dalla colonizzazione occidentale. 

Nel Sahel il circolo perverso della povertà, che subito diventa miseria sotto la sferza della crisi climatica, cadenza la quotidianità, afflitta dalla correlazione di fattori sovrastanti, tra cui  economie di sussistenza spesso, a causa della siccità, conflittuali tra loro (nomadismo dei pastori e sedentarietà degli agricoltori) costantemente esposte alle decisioni prese altrove, risorse naturali controllate da potenze e gruppi esteri, sistemi monetari ancorati a logiche colonialistiche.

Con la crisi occidentale pandemica Sars Cov 19 che ha determinato gravi intermittenze economiche e sociali, l’instabilità nel Sahel è cresciuta ulteriormente, portando negli ultimi tre anni a rovesciare con la forza militare alcuni governi nazionali: Mali (2021), Ciad (2021), la vicina Guinea (2021), Burkina Faso (2022), Sudan (ultimo tentativo di golpe nel 2023), e lo scorso 26 luglio la Repubblica del Niger, cuore del Sahel senza sbocco sul mare e chiave di volta del sistema di egemonia e di alleanze in Africa della Francia. Infine, il golpe in Gabon del 31 agosto scorso, con cui i militari hanno messo fine a 56 anni di potere ininterrotto della famiglia Bongo, che pur non facendo parte del Sahel, economicamente orbita nel sistema monetario del franco CFA, con cui la Francia controlla diversi Stati africani [i].

Il colpo di stato in Niger

Dunque, a fine luglio nella capitale del Niger, Niamey, un gruppo militare guidato dal generale capo della guardia presidenziale, Abdourahamane Tchiani, dopo aver costituito il Consiglio nazionale di Salvaguardia della Patria (CNSP), ha arrestato il presidente in carica, Mohamed Bazoum, che è tuttora in stato di fermo insieme ai suoi familiari nel palazzo presidenziale. Subito dopo, nel discorso alla televisione nigerina, Tchiani ha chiesto il supporto della popolazione, dei governi stranieri e dei partner internazionali, affermando di aver agito per fermare il “deterioramento della sicurezza e il cattivo governo”.

Nei primi rimbalzi mediatici, il governo della Repubblica del Mali si è subito schierato dalla sua parte. Rispondendo a un intervento scritto in prigionia dal presidente Bazoum e pubblicato dal Washington Post, che lo accusava di essere paese di stanza dei mercenari russi Wagner, ha dichiarato che la situazione in Niger era in fermento da anni, a causa della sponsorizzazione occidentale dei gruppi terroristici, al fine di tenere sotto controllo la popolazione.

Bazoum era stato eletto presidente nel 2021, nella prima transizione democratica del paese dalla sua indipendenza. Fortemente sostenuto dalla Francia, il governo di Bazoum oltre a garantire l’export di uranio, aveva dato una forte giro di vite legislativo al transito dei migranti verso l’Europa nel paese, anello di congiunzione geografica delle principali rotte verso il Sahara.

Intanto, in Niger il sentimento popolare antifrancese dilaga. Lo scorso 3 agosto, l’affluenza popolare ai festeggiamenti per i 63 anni di indipendenza dalla Francia, è stata consistente e pacifica, con numerose bandiere russe (citando Reuters, che hanno decretato una vera e propria moda) e slogan di contestazione pro Putin. In Africa e in particolare nel travagliato  Sahel, la Russia è un chiaro simbolo antifrancese e anticoloniale, derivante dalla guerra NATO in Libia e rivitalizzato da quella ucraina costellata di sanzioni. I fermenti nigerini antifrancesi hanno dato massima espressione pacifica lo scorso 2 settembre, quando decine di migliaia di manifestanti radunati per ore all’esterno di una base militare francese, nella periferia della capitale Niamey, hanno gridato alla Francia di lasciare il paese. La richiesta popolare, che rivendica un’indipendenza sostanziale e un sentito sentimento di riscatto dalla povertà, è stata seguita il giorno dopo dall’annuncio ufficiale di rottura degli accordi militari con la Francia del nuovo governo, che ha anche emesso l’ordine di espulsione dell’ambasciatore francese Sylvain Itte, che invece al momento si ostina a restare, nel tentativo di indebolire la nuova giunta.

Le ritorsioni

Le reazioni internazionali alla deposizione di Bazoum sono state immediate. La Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, ECOWAS, ha subito minacciato un intervento militare se il presidente nigerino non verrà reintegrato, sollecitato soprattutto dai governi filofrancesi dei paesi membri Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio e Benin. Recentemente, il nuovo governo nigerino ha diffuso l’informazione che “nel quadro dei preparativi per un’aggressione contro il Niger”, Senegal, Costa d’Avorio e Benin starebbero accogliendo lo schieramento di forze armate francesi.

Ma il fronte Ecowas non è compatto, e Stati membri sospesi, quali Repubblica di Guinea (secondo produttore mondiale di bauxite), Mali e Burkina Faso (rispettivamente quarto e quinto produttore africano di oro), hanno dichiarato il loro pieno appoggio a Abdourahamane Tchiani. Le giunte militari alla guida di questi paesi a seguito di un colpo di stato, nonostante sanzioni, chiusure e sospensioni, stanno nazionalizzando le risorse e mettendo alla porta la presenza francese. La contrapposizione interna regionale scaturente dagli eventi in Niger prospetta la possibilità concreta di un conflitto allargato di portata internazionale, che sta suggerendo prudenza. Una guerra estesa nel Sahel sortirebbe effetti negativi incontrollati per i giganteschi interessi delle multinazionali e per la sicurezza degli approvvigionamenti, già pesantemente acciaccati dalla guerra in Ucraina, al netto delle vittime, sempre subordinate agli schemi bellici di chi decide.

Nonostante i colloqui siano ininterrotti, si sta dunque procedendo con raffiche di sanzioni regionali e internazionali, allo scopo di far retrocedere i militari saliti al potere, attraverso il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, come da copione Mali e Burkina Faso. Ma i risultati non sembrano quelli sperati, per alleanze alternative e per la resilienza della popolazione, lungamente temprata a vivere di poco se non di nulla, ma sempre più consapevole di possedere risorse decisive per i modelli economici internazionali.

Il 40% del bilancio nigerino è costituito da aiuti esteri e il paese figura al settimo posto tra quelli più poveri al mondo, nonostante gli interessi da capogiro che ruotano sui suoi territori. Nell’immediatezza del golpe, l’Ecowas ha subito sospeso il Niger e cessato le attività commerciali, seguito dall’UE, che ha sospeso gli aiuti finanziari al bilancio e all’esercito nigerino, a cui aveva destinato un finanziamento complessivo di 70 milioni di euro attraverso l’European Peace Facility (EPF). La Francia ha bloccato tutti gli aiuti economici, mentre la Germania ha interrotto il pacchetto biennale di sostegno. Completano, ma non lo esauriscono, il quadro delle sanzioni contro il Niger, la Banca Mondiale che ha stoppato i pagamenti, eccetto quelli per partnership speciali, e la Banca centrale degli Stati dell’Africa Occidentale (BCEAO) che ha congelato tutti i beni del Niger. Infine, la Nigeria, che rifornisce al Niger il 70% del suo fabbisogno di elettricità, ha ridotto le forniture, provocando molti black out nelle città nigerine.

Gli Stati Uniti, invece, che intanto hanno fatto evacuare tutto il personale diplomatico non necessario e le famiglie al seguito, continuano a lavorare sul piano delle relazioni. Nel Niger hanno insediato basi militari  strategiche, anche top secret. In un’area desertica nei pressi di Agadez, città chiave delle rotte trans-sahariane verso Algeria, Libia e Mediterraneo e capoluogo della regione omonima dove si trovano le più alte concentrazioni minerarie di uranio,  Il Pentagono con un investimento di 110 milioni di dollari ha costruito la mega Air Base 201, per droni armati e di intelligence e per giganteschi aerei da trasporto. Operativa dal 2018, per la sua gestione gli Stati Uniti spendono circa 30 milioni di dollari all’anno, una pioggia di denaro che stride sulle misere condizioni di vita di molti abitanti dell’Agadez.

Del resto il Niger è uno dei paesi più militarizzati al mondo, con basi militari non solo francesi e statunitensi, ma anche italiane, tedesche e canadesi. Tale dispiegamento di forze straniere viene giustificata con proteggere gli investimenti stranieri, prevenire le migrazioni verso l’Europa e combattere i gruppi terroristici, causa della presenza di circa 250.000 profughi, maliani, burkinabé e nigeriani, sul territorio del Niger.

Anche la Cina ha assunto una posizione di monitoraggio attento della  situazione e ha invitato le parti ad agire nell’interesse del Paese e del suo popolo e a risolvere le divergenze pacificamente, attraverso il dialogo. Dopo la Francia, la Cina è il secondo investitore straniero del Niger, con IDE (investimenti diretti esteri) di 2,68 miliardi di dollari a fine 2020, calcolati dall’ambasciata degli Stati Uniti da fonte Reuters e ascrivibili in gran parte ai giganti statali cinesi CNCP e CNNC. In base al  forum sugli investimenti Cina-Niger tenuto lo scorso aprile, la Cina ha aggiunto la costruzione di un parco industriale agroalimentare, manifatturiero, minerario e immobiliare nei pressi di Niamey.

All’indomani del golpe, il paese più gettonato nelle piazze nigerine, la Russia, ha chiesto che Bazoum sia rimesso al suo posto, e da fonte Reuters,  nel corso di una recente telefonata tra Putin e il leader maliano Assimi Goita, i due leader sono convenuti che la crisi in Niger potrà essere risolta solo con mezzi diplomatici.

Le risorse del Niger

Nonostante oltre il 40% dei nigerini vivano in condizioni di estrema povertà e nel 2022 il paese sia risultato al 189° posto su 191 nell’Indice di sviluppo umano (HDI) delle Nazioni Unite, il Niger possiede le risorse che le economie sviluppate non hanno. Nel suo sottosuolo le riserve di oro, uranio e petrolio sono ingenti. Esse costituiscono il principale punto di forza del nuovo governo nazionalista, ma sono anche il principale nervo scoperto. Le attività minerarie sono a forte impatto ambientale di estesi territori e comportano un grande dispendio idrico, e sotto i colpi della siccità, l’acqua in Niger è sempre più scarsa. Da fonti ufficiali di gruppi minerari operanti in Niger, l’avvento di Tchiani non ha interferito con lo svolgimento delle loro attività, eccetto i ritardi creati all’esterno. Ciononostante, la francese Orano ha costituito una unità di crisi.

L’uranio

Secondo la World Nuclear Association, il Niger è il settimo produttore mondiale di uranio, dopo Australia, Kazakistan, Canada, Russia, Namibia e Sud Africa. Fornisce a livello globale il 5% del minerale di più alta qualità al mondo. Nel 2022 la sua produzione è ammontata a 2.020 tonnellate, attestando il Niger secondo fornitore dell’UE, soddisfacendo un quarto del suo fabbisogno. In gran parte il minerale va alla Francia, dove un terzo dell’energia elettrica è prodotta da centrali nucleari.

L’attuale crescita della domanda internazionale di uranio, sta avendo importanti ricadute sul Niger, spinta dall’inserimento della fusione nucleare tra le attività energetiche ecocompatibili, votato dal Parlamento europeo l’anno scorso. Anche il rialzo a due cifre del suo prezzo, al momento quotato 50 dollari per libbra, per l’instabilità delle forniture russe, causata della guerra in Ucraina, benchè l’uranio sia escluso dalle sanzioni occidentali contro la Russia, sta contribuendo a rinverdire l’interesse della Cina verso i giacimenti nigerini. La China National Nuclear Corporation (CNNC) attraverso una sua controllata, ad Arlit sta riprendendo un progetto di produzione, abbandonato nove anni fa per le condizioni sfavorevoli del mercato globale, di cui già possiede i permessi operativi. Poco prima del golpe, la Cina aveva anche aperto il dialogo con il presidente Bazoum per il rilancio della miniera della Société des mines d’Azelik (Somina), joint venture partecipata da CNNC (37,2%), dal governo nigerino (33%), dal fondo cinese  ZXJOY Invest (24,8%), e dalla coreana Kores (5%). Nel 2016 l’impianto minerario era stato al centro di accesi contenziosi, per i pesanti danni sanitari causati al villaggio di Azelik e nei campi circostanti. Ciononostante, la firma del nuovo accordo per il ripresa del progetto di produzione di Arlit, ha entusiasmato il sindaco di Ingall, città della regione di Agadez, per i conseguenti benefici alle comunità locali in termini di fornitura di elettricità, realizzazione di  infrastrutture e creazione di posti di lavoro. Sfortuna o felicità è il tragico dilemma che lo sfruttamento minerario provoca nei territori.

In generale, il Niger partecipa direttamente nelle società minerarie attraverso la Sopamin (Societé du Patrimoine des Mines du Niger), e l’uranio è pullulante di società estere. Tra queste, la canadese Global Atomic, che attraverso SOMIDA, partecipata al 20% dal Niger, detiene il 90% del progetto minerario Dasa a sud di Arlit, per la cui realizzazione finora ha investito 50 milioni di dollari. Sarà uno più grandi siti di uranio al mondo, ora alle prese  di una battaglia legale intentata dalle ONG nigerine per l’incompletezza dello studio d’impatto, dietro cui potrebbero celarsi insidie quali inquinamento e colonialismo nucleare. Entro il 2025 la Somida dovrebbe essere pronta a fornire uranio a un’importante utility nordamericana. Invece, un’altra canadese, la GoviEx Uranium, sta sviluppando il progetto Madaouela nei pressi di Arlit, dove risiedono anche alcune miniere della Orano, multinazionale francese, che pochi mesi fa ha firmato un accordo per i siti minerari di Imouraren, in partnership con le due compagnie nigerine Cominak e Somair e la Korea Electric Power, mentre la spagnola ENUSA detiene una partecipazione di minoranza nelle miniere gestite dalla Cominak. Altre società, australiane e indiane, detengono licenze di esplorazione.

Il petrolio

Il Niger è produttore di petrolio dal 2011, quando la joint venture tra PetroChina, del gruppo statale CNPC (China National Petroleum Corp.) e il governo nigerino  ha iniziato la produzione di greggio nel giacimento di Agadem, a circa 1.600 km a est della capitale Niamey. Le sue riserve stimate sono di 650 milioni di barili, mentre secondo l’Organizzazione africana dei produttori di petrolio le riserve di greggio nigerine ammontano a un miliardo di barili.

Parallelamente PetroChina ha investito con una quota del 60% (la restante quota è dello stato  nigerino) nella realizzazione della raffineria SORAZ, che rifornisce principalmente il mercato nazionale.

Ma  il progetto principale del valore totale di 4 miliardi in cui è coinvolto CNCP, in qualità di sviluppatore, è la realizzazione dell’oleodotto  di 1.980 km, dai pozzi di Agadem al porto di Cotonou nella Repubblica del Benin, per l’esportazione del greggio nigerino. Nell’affare è coinvolta anche l’inglese Savannah Energy, che detiene un’importante quota di contratti di produzione, oltre ad essere attiva in Niger nello sviluppo di impianti fotovoltaici ed eolici. Nonostante la destituzione di Bazoum, i lavori di costruzione dell’infrastruttura, completata per il 75%, continuano, essendo stata esclusa  dalle numerose sanzioni e chiusure contro la giunta al potere. L’entrata in funzione dell’oleodotto, che dovrebbe avvenire entro la fine di questo anno,  sarà associato a nuovi pozzi, portando la produzione nigerina di greggio dagli attuali 20.000 barili di petrolio al giorno (bpd) a  110.000 bdp, con un effetto atteso di crescita sul Pil nigerino del +24% e sulle esportazioni del 68% entro il 2025.

Altri progetti riguardano l’oleodotto Niger-Chad collegato a quello Chad Camerun ma nel limbo dal 2019, e il gasdotto trans-sahariano, un progetto degli anni ’70, per il quale si è giunti a un memorandum Nigeria-Niger-Algeria solo l’anno scorso.  

Il futuro della cooperazione sino-nigerina per il petrolio e il gas si annuncia roseo, rafforzato ulteriormente dal memorandum d’intesa tra Sinopec, major statale cinese, e il Niger, firmato a maggio scorso, che attesta quanto il mondo umano sia ancora scelleratamente lontano dalla volontà di non inquinare.

                                                                                                              Giovanna Visco


[i] Il sistema monetario CFA.

Nonostante siano passati più di sessanta anni dalla indipendenza delle sue colonie, la Francia è l’unico paese al mondo che continua a detenere il potere monetario in diversi paesi africani. Sotto la supervisione del Ministero delle Finanze francese, il franco CFA (FCFA) è la moneta ufficiale 14 paesi africani e nelle Comore (tutti ex colonie francesi eccetto Guinea Bissau e Guinea Equatoriale).

L’acronimo, CFA, nasce nel 1945, come sigla del franco delle Colonie Francesi d’Africa. Nel 1958 cambia il significato in Comunità Francese dell’Africa, e successivamente viene mantenuto per distinguere due monete non intercambiabili fra loro ma di pari valore: il franco della Comunità Finanziaria dell’Africa, dell’Unione economica e monetaria ovest africana (UEMOA), circolante in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo, e il franco della Cooperazione Finanziaria dell’Africa Centrale, della Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC) in uso in Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo. Il Comore ha un franco a parte.

La valuta viene stampata dalla zecca francese, ed emessa, a seconda della Comunità di appartenenza dello stato, dalla BCEAO (Banca Centrale degli Stati dell’Africa Occidentale) con sede a Dakar, capitale del Senegal, e dalla BEAC (Banca degli Stati dell’Africa Centrale) con sede a Yaoundé, capitale del Camerun. La Banca di Francia ne garantisce la piena convertibilità, custodisce il 50 per cento delle riserve in valuta straniera delle due banche centrali, e detiene il corrispettivo in oro della massa monetaria circolante, con la conseguenza che tutti gli scambi devono passare al suo vaglio.

Il franco CFA è ancorato a un cambio fisso, passato dal franco francese all’euro, che lo lascia esposto alle sue fluttuazioni sui mercati mondiali. Ciò impedisce agli Stati africani qualsiasi politica di cambio, con conseguenze drammatiche, come quando nel 1994 Francia e Fondo Monetario Internazionale (FMI), per favorire le esportazioni di materie prime (nei paesi CFA mancano le industrie di trasformazione reiterando una condizione tipicamente coloniale), decisero di svalutare il CFA del 50%. Il rimbalzo sui paesi africani fu drammatico, per il conseguente crollo del 40% del potere di acquisto delle famiglie e l’impennata dei prezzi delle importazioni, che portarono instabilità e conflitti in tutta l’area.

Nel 2011, l’intervento militare NATO in Libia, con cui si annientò Muammar Gheddafi,  uno dei sostenitori più potenti della indipendenza panafricana, scatenando una guerra civile tuttora in corso, fu profondamente ancorato alla difesa del sistema monetario del franco CFA. In un documento reso pubblico solo nel 2016 da WikiLeaks di Julien Assange, il consulente Sidney Blumenthal, all’alba della guerra, scriveva al Segretario di Stato statunitense, Hillary Clinton, che uno dei motivi per cui il presidente francese Nicholas Sarkozy intendeva rovesciare il regime di Muammar Gheddafi, che disponendo di 143 tonnellate d’oro progettava di creare una valuta panafricana basata sul Dinar libico alternativa al franco CFA, era quello di assicurare al proprio paese il ruolo di potenza dominante nell’Africa francofona.

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