Il pianeta e le donne, una sola lotta

Nel sensazionalismo mediatico italiano da gennaio al 20 novembre 2022 sono passati alla cronaca  gli omicidi sessisti di 104 donne, in media 2 uccisioni alla settimana, il 38% di quelli complessivamente registrati nel periodo, ammontati a 273. Ognuno di questi femminicidi è stato consumato mediaticamente con insulsi commenti rituali, accompagnati dalle cavalcate propagandistiche della politica. Un paio di giorni di chiacchiere, seguiti dal silenzio del dimenticatoio collettivo, fino all’omicidio successivo. Un copione che  lascia indenni i contesti trasversali entro cui ogni singolo femminicidio matura, su cui si infrangono tutte le tecniche statistiche, che vorrebbero correlare a questi crimini età, livello di istruzione, status e appartenenza sociale di vittime e carnefici.

Nel mondo, secondo le Nazioni Unite, nel 2021 si sono contati approssimativamente 5 femminicidi ogni ora, causati per il 56% dalla mano del partner o di un parente. Tale casistica  è solo stimata approssimativamente, perché le registrazioni dei femminicidi, a seconda dei paesi, hanno modalità e lacune differenti. Parallelamente, di tutti gli omicidi commessi contro maschi, solo l’11% si sono consumati nella sfera privata.

Ma in fondo, i femminicidi sono veramente considerati crimini?

Per quante persone, uomini e purtroppo anche donne, sono solo reazioni estreme all’esasperazione provocata dal tentativo di donne ribelli di sottrarsi ai doveri, che altro non sono che giogo del dominio maschiocentrico?

La tensione che si sviluppa nell’ambito della fortissima asimmetria culturale, sociale ed economica tra i sessi, troppo spesso è censurata o banalizzata. L’essere donna è sottoposto a una costante de-valorizzazione, che in Occidente, specie nell’Italia del ceto medio, in molti casi arriva persino a negare la forza fisica delle donne. Il risultato è la cancellazione dalla memoria di milioni di donne manovali, minatrici, zappatrici, edili, braccianti, che fa comodo posto alla esaltazione riconoscente verso gli avanzamenti tecnologici, che abiliterebbero le donne a qualsiasi lavoro e renderebbero confortevoli le pulizie domestiche. Una ipocrisia che cela il nuovo sfruttamento del lavoro realizzato con l’utilizzo della tecnologia (automazione e digitalizzazione), che permette di innalzare i livelli di produttività pro-capite a vantaggio del profitto e di controllo sul tempo e la resa dei lavoratori. Una finzione che  sul piano sessista è percepita spesso come conquista, ma che nella realtà è piuttosto somigliante a una elargizione, costellata di convenienti disparità salariali a sfavore delle donne, che aumentano i margini di redditività dei capitai investiti.

La famiglia

La famiglia, anche nelle sue recenti forme, resta il luogo istituzionale principale di trasformazione della differenza sessuale in disparità, attraverso un sistema di aspettative e di premialità simboliche, su cui si fonda il diritto dei maschi di sentirsi uomini e la colpa delle donne, quando un uomo non si sente sufficientemente uomo. Una matrice semplice ed elementare, diventata sempre più forte nel tempo, riproducendosi e declinandosi  nei mille volti della oppressione, della intimidazione, della intolleranza e della violenza. Il dualismo asimmetrico che la sostanzia dimostra alti livelli di adattamento alle condizioni più disparate, raggiungendo massima espressione nello sdoganamento dei costumi sessuali, che sta disumanizzando il comportamento di milioni di persone. Impupazzato e propagandato come libertà, tale sdoganamento tenta di occultare l’antinomia sessista che domina da millenni la cultura occidentale, da cui si è generato lo stesso capitalismo e il suo perverso sistema di distribuzione della ricchezza. Il suo culmine è raggiunto con la ideologizzazione, specialmente tra gli adolescenti, delle questioni molto complesse e delicate stipate sotto la sigla LGBT e sue varianti, un calderone scomposto di disagio esistenziale che rafforza ulteriormente nella ricerca di identità, l’asimmetria maschiocentrica.

La liberalizzazione dei costumi sessuali

La parola d’ordine di questo caos è sexy, ormai bandiera conclamata della “liberalizzazione di mercato” dei costumi sessuali, che si è imposta dopo aver confuso e poi scardinato dalla coscienza collettiva delle donne, anni di faticose analisi critiche e di autocoscienza dei movimenti femministi. Il risultato è stato la prevaricazione sui corpi e la loro  trasfigurazione, soprattutto quelli delle donne, mutati grottescamente in vuote identità pornografiche. Una degenerazione involutiva che ha tra i suoi apici la negazione dell’importanza di nascere con la vagina o con il pene, appresa sin da tenera età attraverso il guardare passivo individuale, sperimentato attraverso media e Internet straripanti di sesso e di richiami sessuali. Il consumismo del sesso genera affari da capogiro, come fast fashion, alimentazione, chirurgia, e, al netto della pedofilia, lo svuotamento del significato sessuale per giovanissimi, giovani e adulti. Ed è proprio dall’incontro delle disparità sessiste con lo svuotamento dell’atto sessuale che si genera il numero enorme di stupri subiti dalle donne di qualsiasi età, spesso nemmeno denunciati, in casa, sui luoghi di lavoro, per la strada e in ritrovi di ogni tipo. Ancora le Nazioni Unite dicono che nei 12 mesi precedenti il 28 novembre 2022, una donna ogni 10, tra i 15 e 49 anni, ha subito una violenza fisica o sessuale dal proprio partner.

Ora che si sta entrando in una fase di conclamato calo demografico, per le donne si apriranno nuove stagioni di soprusi e colpevolizzazioni, a meno che qualche osceno laboratorio di ricerca non crei soluzioni riproduttive alternative, magari finali, sulla scia di quelle che la storia non molto lontana ci ha mostrato. Povere noi donne.

E allora che fare?

Ogni donna dovrebbe porsi questa domanda, respingendo il perimetro dei diritti umani, generato da una retorica che indistintamente mette in un unica piazza molte questioni diverse, per strumentalizzarle a fini politici ed economici. Non siamo un caso di diritti umani, ma il portato principale di una pretesa di dominio dell’uomo sull’uomo, che comincia con la volontà di sottomettere le donne.

Allo stesso modo, il rito delle giornate internazionali che calendarizzano le agende della politica sono una forma di controllo e di moderazione sociale che disinnescano la critica di cui in quanto donne siamo portatrici viventi.

La lotta delle donne è delle donne e riguarda esclusivamente le donne, in quanto uniche e dirette interessate. Questa premessa apre possibilità di apertura di nuovi ed enormi spazi sociali di solidarietà e condivisione fra donne, in cui sperimentare nuove pratiche umanizzanti di dialogo e di comportamento sociale, in grado di rifiutare e respingere i modelli preconfezionati maschiocentrici, da tempo immemore gli unici disponibili e per questo imitati da molte donne.

Un punto di partenza interessante, per riprendere il percorso non certo facile di formazione di una coscienza collettiva autenticamente autonoma delle donne, può essere offerto dalle istanze ambientaliste, che si possono candidare a essere sponda critica per le donne, offrendo spunti e stimoli che possono indicare strategie efficaci per abbattere il disequilibrio sessista che opprime le donne. Con l’ambientalismo è possibile cambiare il modo di consumare dell’insieme delle donne, che si traduce nell’imparare a pensare, osservare e ascoltare consapevolmente, sé stesse e il mondo, sviluppando una percezione empatica della realtà.

Si tratta di conquistare, certo faticosamente, spazi espressivi esclusivi, in cui l’indipendenza soggettiva non è sottoposta alla gogna del pregiudizio, ma vive e si vivifica nel confronto critico, l’unico capace di generare la coesistenza delle diversità e la bellezza, l’unico in grado di respingere muscolarità e guerre.  

Un mondo migliore e un pianeta ospitale per tutti gli esseri viventi,  non potrà realizzarsi senza l’unione e la lotta delle donne.  (Giovanna Visco)

Foto di copertina tratta da iStorica

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