Mentre il mondo è alle prese con il Covid-19, i cambiamenti climatici continuano ad abbattersi senza sosta con conseguenze dirette e indirette in tutti i paesi, causando bilanci disastrosi per la vita delle persone e dell’ambiente naturale, per la economia, colpendo in particolare infrastrutture ed agricoltura, con ripercussioni dirette sulla sicurezza alimentare globale e sull’aumento della povertà e dei prezzi dei beni scambiati.
Alcuni cicloni recenti e le conseguenze sui porti
Guardando in modo non esaustivo ad un recente breve lasso di tempo, ad ottobre scorso in Vietnam la tempesta tropicale Nangka, che in un solo mese ha subito 4 cicloni consecutivi, portava forti piogge, che hanno causato vaste inondazioni con vittime spazzate via dalle acque alluvionali, l’evacuazione di circa 46.000 persone, e l’allagamento di oltre 109.000 case e di oltre 580 ettari di terreno coltivato. Fiumi gonfi e comunità sommerse.
All’inizio di novembre il ciclone Eta dal Nigaragua, con venti di 230 km orari, marciava verso El Salvador, che ha dovuto evacuare preventivamente migliaia di persone in oltre 1.150 rifugi sparsi in tutto il paese e predisporre l’evacuazione degli animali da allevamento.
A novembre inoltrato, la previsione di livello 6 del ciclone Nivar, tempesta ciclonica grave, determinava le autorità indiane dell’India orientale a chiudere i tre importanti porti di Chennai, Kamarajar e Kattupalli. Le navi portacontainer sono state portate in sicurezza in alto mare, salvaguardando così anche le strutture portuali, sono state messe in sicurezza le gru di banchina e qualsiasi attrezzatura di movimentazione merci, bloccati i viaggi dei container verso il porto e protetti i mezzi pesanti presenti in porto. Tutte le operazioni si sono dovute fermare fino al termine del passaggio del ciclone, ed anche le aziende della fiorente industria automobilistica di Chennai, soprannominata la Detroit dell’Asia meridionale, hanno sospeso le loro attività. Allo stesso tempo nello Stato di Tamil Nadu, nel Sud dell’India dirimpettaio dello Sri Lanka, per precauzione venivano evacuate 145.000 persone, trasferendole in 1.516 campi di soccorso.
In 10 giorni sia nel Mar Arabico che nel Golfo del Bengala si sono formati ben 3 violenti cicloni consecutivi, causando ai terminal container del porto hub di Colombo, nello Sri Lanka, un grave congestionamento per le masse di container arretrati che occupavano banchine e retroporto, ancora in fase di recupero, gettando nel caos le programmazioni degli arrivi navi, che ha indotto il vettore MSC a saltare le toccate, con enormi conseguenze sui booking. Alcune testimonianze riportano che il round trip (andata e ritorno) del feeder Cochin – Colombo che nella normalità impiega 2 giorni, è arrivato a 20 giorni.
Quasi in contemporanea, in Somalia nel Corno d’Africa, si abbatteva il ciclone Gati, una delle peggiori tempeste subite dal paese, con piogge torrenziali e forti venti che hanno causato morti e migliaia di sfollati, distruggendo strade, case, linee elettriche e tralicci. Le inondazioni improvvise e l’ipotermia hanno ucciso anche un numero imprecisato di capi di bestiame: tra le zone più colpite Bossaso, famosa per i suoi porti da cui esporta il bestiame vivo verso i mercati del Golfo. Lungo tutto il Golfo di Aden il ciclone ha paralizzato pesca, trasporti e molte altre attività.
Il costo dei cambiamenti climatici sui traffici
I danni ingenti ai traffici commerciali si esprimono soprattutto nei congestionamenti e nei rallentamenti, se non blocchi, che riducono la capacità di trasporto disponibile, terrestre, marittima e aerea, con notevoli aumenti non solo dei tempi di trasferimento delle merci, ma anche dei costi logistici e dei noli, apportando pesanti cambiamenti nella organizzazione dei carichi e nullificazioni, come i servizi di caricazione prioritari, che pagano noli maggiorati per ottenere la garanzia di rapidi viaggi.
Mai come in questo tempo le previsioni e le allerte metereologiche 24 ore su 24 sono diventate indispensabili per prevenire o quanto meno contenere i danni dei cataclismi naturali, dando lumi ai caricatori e alla logistica sulla scelta più opportuna dei percorsi e dei mezzi su cui far viaggiare le merci e agli operatori di mettere in sicurezza i lavoratori e al riparo le strutture.
Ma la prevenzione più efficace è ormai nella consapevolezza sempre più diffusa che occorre fare molto di più e molto più velocemente per abbassare innanzitutto il livello delle emissioni dei gas serra che surriscaldano l’atmosfera, sconvolgendo il delicato equilibrio climatico globale, che assicura la sopravvivenza di tutte le specie viventi.
Il quadro (nero) della situazione
Ormai è lampante che la moltiplicazione incontrollata dei fenomeni metereologici estremi non risparmia nessuno, con impatti umani, materiali e finanziari enormi, diretti ed indiretti.
Il World Meteorological Organization (WMO), l’organizzazione meteorologica mondiale della Nazioni Unite, nel suo ultimo rapporto ha delineato una situazione allarmante, segnalata uniformemente da diversi indicatori, quali la temperatura atmosferica, la CO2, il calore e l’acidificazione degli oceani, il livello del mare, il bilancio di massa dei ghiacciai e la banchisa artica e antartica. Tutti mostrano l’accelerazione del cambiamento climatico nel quinquennio 2015-2019, che è stato anche il periodo più caldo finora riscontrato. “Dobbiamo circoscrivere il cambiamento climatico come la pandemia” è l’appello lanciato dal WMO.
Il 30% della popolazione mondiale vive ormai in regioni climatiche soggette a canicole mortali per almeno 20 giorni l’anno, che causano anche l’abbassamento del Pil e rendono inadeguati tecnologie e materiali, che si trovano a dover affrontare usure e deterioramenti imprevedibili per acidificazione e shock termici, sollecitando una accelerazione della ricerca ed innovazione.
Segnali di risposta
Il cambiamento climatico è l’oggetto dell’Accordo di Parigi del 2015, il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici adottato dal COP21 nel dicembre 2015 ed entrato in vigore il 4 novembre 2016, dopo la ratifica di almeno 55 paesi rappresentanti insieme il 55% delle emissioni globali.
In questo senso l’impegno dell’Ue di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra di almeno il 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, che la Commissione nell’ambito del Green Deal europeo (il piano per rendere l’economia UE sostenibile e climaticamente neutra entro il 2050, con la trasformazione in opportunità dei problemi ambientali e strategici e una transizione giusta ed inclusiva per tutti) ha proposto lo scorso settembre di modificare ad almeno il 55%.
Entro i prossimi 5 anni, la Banca Mondiale ha annunciato 200 miliardi di dollari di finanziamento destinato a progetti per la lotta al cambiamento climatico, una iniziativa che trova sponda nella stima del 2015 di UNDP, Programma della Nazioni Unite per lo Sviluppo, per la quale ogni dollaro investito in prevenzione dei disastri naturali, genera un risparmio di 7 dollari rispetto alle perdite economiche che ne conseguono.
Pochi giorni fa, la Tunisia ha organizzato (fonte Tunisie Numerique) la prima conferenza metereologica, con incontri dedicati al settore meteorologico partecipati da 10 paesi francofoni – Algeria, Benin, Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio, Francia, Gabon, Marocco, Senegal, Togo, Tunisia – riunendo direttori metereologici africani e francesi, esperti ed aziende altamente tecnologiche per lo scambio di buone pratiche e lo sviluppo di relazioni con tecnici di aziende altamente tecnologiche per preparare i paesi africani ad affrontare i cambiamenti climatici durante la ripresa economica post Covid-19.
La Nuova Zelanda, invece, ha dichiarato lo stato di emergenza climatica ed il governo della premier Jacinda Ardern si è impegnato, con l’approvazione dello Zero Carbon Act 2019, a garantire emissioni zero entro il 2025, per affrontare e ridurre l’impatto devastante che il clima instabile ed estremo produce, con inondazioni, innalzamento del livello del mare e incendi, sul paese e sul benessere dei suoi abitanti, sulle industrie primarie, sulla disponibilità di acqua e sulla salute pubblica. La quota delle emissioni globali della Nuova Zelanda è solo dello 0,17%, ma è molto alta rispetto alle sue dimensioni, emissioni peraltro salite del 60% negli ultimi due decenni, a causa soprattutto dei trasporti e dei gas serra prodotti dalla agricoltura.
La Nuova Zelanda è l’ultimo paese in ordine temporale ad aver assunto questa decisione, l’Italia ha dichiarato lo stato di emergenza climatica il 12 dicembre 2019, mentre il Parlamento europeo il 29 novembre 2019.
C’è molto urgente lavoro da fare.
Foto di copertina, ciclone in Vietnam, Thanh Dat/REUTERS
Puntuale e informatissima disamina dei molteplici e gravi effetti dei cambiamenti climatici, delle loro cause e degli sforzi, ancora insufficienti, di governi e organizzazioni internazionali per avviare una non più procrastination inversione di tendenza.