Via della Seta: ecco i progetti di espansione della Cina

Negli ultimi 10 anni, da quando la Cina sta trasferendo insediamenti industriali, attività e agglomerati urbani dal suo nord est verso le sconfinate province interne centroccidentali, molto sta cambiando nella logistica globale.

Solo 12 anni fa, l’inquinamento di aria, acque e terreni, al costo stimato dallo studioso Vaclav Smil di almeno 15 punti di Pil, causato dai riversamenti minerari, industriali, agricoli e delle megalopoli nate dai giganteschi flussi migratori dalle campagne, l’aveva costretta a rallentare le attività per ospitare le XXIX Olimpiadi, amplificando la crisi finanziaria internazionale, deflagrata in Usa nel 2007. Pochi anni dopo, nel 2011, la Cina varava un cambiamento epocale, fondando nel paese nuove città e realtà industriali sostenibili.

È questo il quadro del più vasto progetto della storia: la Belt and Road Iniziative (BRI), che pianifica un’enorme rete infrastrutturale per nuovi canali marittimi, terrestri e digitali di connessione intercontinentale. Anticipata per la prima volta nel 2013 in Kazakistan dal Presidente cinese Xi Jinping, come costruzione di una cintura economica di cooperazione e sviluppo euro-asiatici, e poi in Indonesia riferendosi alla via della seta marittima del sud est asiatico, la BRI è stata ufficializzata nel 2015 con 6 corridoi (4 corridoi terrestri Silk Road Economic BeltCMREC Cina-Mongolia-Russia, NELB, nuovo ponte terrestre euroasiatico Cina–paesi Ue, CCWAEC Cina-Medioriente-Sudovest asiatico, CPEC Cina-Pakistan; e 2 corridoi marittimi 21st Century Maritime Silk Road, collegati al “filo di perle” marittimo Atlantico-Pacifico via Mediterraneo: BCIMEC Cina-Bangladesh-Myanmar-India, CICPEC Cina-Indocina). Finanziata da un fondo interbancario di investimento, il Silk Road Fund, in futuro la BRI conta di allargarsi al corridoio in fieri della via della seta polare, focalizzato sull’import da Norisk, inquinata città della Siberia e principale centro minerario non ferroso del mondo, e sull’export verso Rotterdam. Nonostante gli intralci per convenzioni internazionali degli 8 paesi artici e dispute territoriali, dal 2012 al 2017 la Cina aveva già investito nell’area circa $90 mld in infrastrutture, spedizioni scientifiche e base di ricerca a Svalbard (Norvegia).

La Banca Mondiale stima in circa 575 mld di dollari il valore delle opere BRI finora terminate o in corso d’opera, nonostante le forti azioni USA di contrasto e di discredito, con argomenti quali opacità, cessione di sovranità, intrappolamento dei paesi più poveri nel debito.

Come rilasciato dal vice segretario generale del One Belt One Road CenterXu Wenhong in una recente intervista al The Week, nonostante rallentamenti e tagli a seguito di guerra commerciale Usa-Cina e crisi per la pandemia Covid-19, la BRI è sempre più prescrizione di rilancio dell’economia mondiale, inserita nei documenti Onu, G20, Apec, Asem e Sco e con accordi di cooperazione firmati dalla Cina con oltre 170 paesi e 30 organismi internazionali.

Ma i nervosismi e le tensioni geopolitiche destate dalla BRI restano, contestualizzando rinnovate dispute come quelle rinfocolate in Kashmir, ponte strategico naturale himalaiano, che dal 1947 è per 1/3 Pakistan e per 2/3 Jammu e Kashimir, ceduto dal maharaja Harj Singh all’India con status speciale di alta autonomia fino all’anno scorso, quando Modi ha spinto il Parlamento indiano ad abrogarlo, declassando lo stato federato a territorio. Il provvedimento ha infiammato gli antagonismi tra il resto dell’India hindu e la maggioranza mussulmana dello Jammu e Kashimir, e scatenato Nuova Delhi contro le proteste insorte nell’ex Stato, che resta ancora parzialmente isolato dal resto del mondo e sottoposto a una pesante repressione – ripresa da ben 3 comunicazioni ufficiali ONU al governo indiano e rimaste senza risposta – che ha bruciato oltre 14 mld di dollari e migliaia di posti di lavoro.

Nonostante il commercio bilaterale Cina-India da $200 mln del 1990, abbia toccato $92,5 mld nel 2019 per la forte integrazione delle due economie, e appena l’anno scorso Modi e Xi Jinping annunciavano manifestazioni congiunte per celebrare la cooperazione tra i due paesi, il 16 giugno scorso nella valle del Galwan sulla linea di confine LAC (Line of Actual Control), scenario di guerra tra le due potenze nel 1962, i loro eserciti sono entrati in contatto con un’inusitata violenza, a suon di colpi di bastoni e pietre. 

L’ascesa di Modi ha soffiato sul fuoco delle rivalità con la Cina e delle preoccupazioni per la BRI, dando luogo ad opere infrastrutturali di protezione e manovre militari indiane ai confini, anche con sconfinamenti territoriali denunciati da Nepal, Regno del Bhutan, Cina e Pakistan. Sul piano delle relazioni ufficiali, Nuova Delhi non ha voluto partecipare ai Forum Belt and Road 2017 e 2019 e si è ritirata dal partenariato asiatico RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership, grande area di scambio di interesse globale fondata nel 2012. In compenso, ha appoggiato la ricostituzione nel 2017 del Quad (Quadrilatery Securty Dialogue), gruppo informale di informazione ed esercitazione militare a guida USA, focalizzato sul contrasto delle ambizioni cinesi, nato nel 2007 poi disciolto l’anno dopo per le proteste diplomatiche internazionali, partecipato da Australia, Giappone e India. La tensione sino-indiana si esprime con reciproche ritorsioni sul piano diplomatico, in sede del Consiglio di sicurezza ONU e nelle relazioni con gli altri paesi asiatici, ma è prudente sul piano commerciale, con circoscritte limitazioni di alcune importazioni dalla Cina e divieto di accesso a 59 App cinesi. 

La contesa egemonica, con la scalata dell’influenza cinese con importanti investimenti BRI negli stati storicamente sotto la sfera indiana, e il controbattere di Nuova Delhi con l’aumento degli aiuti, sta favorendo la posizione geopolitica di paesi come Bangladesh, Nepal, Sri Lanka, Maldive, Repubblica dell’Unione del Myanmar. Quest’ultima, coinvolta nel corridoio marittimo BRI di accesso al Golfo del Bengala (BCIMEC) è destinataria di massicci investimenti infrastrutturali cinesi, tra cui la costruzione di un porto a KyaukPhyu in Rakhine, per il quale il Myanmar ha stabilito anche una collaborazione con l’India per l’apertura di una via di collegamento terrestre con il porto fluviale di KolKata (Calcutta), a circa 200 km dal Golfo del Bengala, suscitando forte disappunto cinese, che in risposta pare sostenga con raccolta di fondi gruppi di ribelli in Myanmar.

Sul piano marittimo è ormai conclamata la presenza della marina militare cinese nell’Oceano Indiano, basata nel porto di Gibuti nel Corno d’Africa con appoggio nel porto BRI di Hambantota in Sri Lanka, in concessione cinese per 99 anni; ma è sul piano terrestre, in Kashimir, il motivo di forte tensione fra le due potenze. Se parte della classe dirigente indiana auspica almeno due deviazioni terrestri BRI, una a sud-est, dalla città cinese Kunming al porto fluviale di Kolkata, e l’altra a nord-ovest, dallo Stato federato Uttakharand via Tibet verso il porto di Mumbai, contemporaneamente Nuova Delhi mostra forte contrarietà per il corridoio CPEC Cina-Pakistan.

La popolosa Repubblica Islamica del Pakistan, indipendente dall’India dal 1947, grazie alla BRI sta compiendo importanti progressi, primo fra tutti l’elettrificazione del paese grazie alla costruzione di centrali, e recentemente sono stati sottoscritti 2 progetti idroelettrici del valore di $2,4 mld nel Kashimir pakistano attraversato dal CPEC, che, da fonte cinese, dalla sua inaugurazione nel 2015, ha prodotto più di 75.000 posti di lavoro diretti e 200.000 indiretti. Complessivamente, il valore delle opere BRI nel paese ha raggiunto $70 mld, al cui apice ci sono il porto di Gwadar sul Mar Arabico, gestito da China Overseas Port Holding Co, e le autostrade di collegamento terrestre interno e costiero verso il porto di Karachi con terminal container a gestione cinese, mentre la realizzazione della rete ferroviaria è in stallo, anche per il taglio di un terzo del contributo pakistano, ora alle prese della pandemia Covid-19. Nonostante il terrorismo separatista del Balochistan abbia fatto salire i costi di messa in sicurezza del corridoio, il porto di Gwadar è quasi completamente operativo ed ha già iniziato a movimentare merce afghana in transito, contesa dal porto iraniano di Chabahar, sede della free zone PGCFZ gestita dall’India, per un accordo trilaterale India-Iran-Afghanistan nel 2016. L’Afghanistan non avendo sbocchi sul mare, è diventato motivo di diatriba transfrontaliera Pakistan-Iran, ulteriormente riscaldata dall’accordo pakistano del 2018 con l’Arabia Saudita, per la realizzazione di una raffineria con area di stoccaggio a Gwadar, del valore $10 mld. Al rarefarsi della pandemia, si potranno vedere gli sviluppi.

Giovanna Visco

Questo articolo è stato pubblicato da ShipMag il 27 luglio 2020

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