La pressione Covid della portualità italiana

Molto si è scritto su come i porti commerciali rappresentino un ambiente unico, che si evolve costantemente senza mai perdere la propria specificità. Permeabile e inaccessibile allo stesso tempo, il porto è un luogo in continuo mutamento, una sentinella dei cambiamenti economici e tecnologici locali, nazionali e internazionali, sul filo che declina la sicurezza di persone, merci e infrastrutture.

In Italia per molti anni porti e navi sono stati esclusivo dominio degli addetti ai lavori, nonostante il loro insediamento nel corpo urbano delle città.

Poi è subentrato un cambiamento storico, culturale e tecnologico, che ha coinvolto immediatamente anche i porti, modificandone l’organizzazione complessiva in rapporto a più elevati gradi di accessibilità. Si tratta del passaggio dalla visione meccanica della realtà a quella di sistema, che ha allontanato le logiche organizzative degli ingranaggi e delle catene di montaggio, in cui tutti sono utili ma nessuno indispensabile, per privilegiare quelle ecosistemiche a rete. L’integrazione a rete è la risposta alla forte domanda di mobilità e di connessione, avviata a seguito di un insieme di fatti, tra cui la caduta del muro di Berlino e l’ingresso della Cina nel WTO, sostenendo in modo sostanziale il processo di globalizzazione e adesso quello emergente di regionalizzazione, a seguito degli sconvolgimenti dei rifornimenti arrecati dalla pandemia Covid-19.

Nella portualità italiana l’esordio di tale cambiamento ha condotto a un primo risultato eclatante: l’apertura del porto alla città, spinta e stimolata dall’industria marittima crocieristica delle meganavi.

Migliaia di crocieristi hanno calamitato gli interessi locali di esercenti, siti di interesse turistico e politici, dando luogo ad una forte interazione che ha avuto tra i suoi punti di sintesi più alti la pianificazione portuale dei water front, un inglesismo lessicale divenuto familiare anche al cittadino comune.

Sul lato commerciale, invece, i traffici internazionali si sono sempre più intensificati con il boom della logistica della globalizzazione delle produzioni industriali, evolvendo i porti da punti di deposito e varco delle merci in integratori di servizi complessi (quest’ultima, definizione di Sergio Bologna), con un elevato portato di navi, camion e treni. Ne è conseguita una prima visibilità sociale del porto, non proprio positiva, destando istanze di abbattimento degli impatti ambientali delle attività portuali sulle città.

In questa cornice, il pool di manodopera nei principali porti italiani ha subito una forte tensione tra la sua intrinseca caratteristica di servizio di interesse generale, i processi di verticalizzazione di alcune compagnie e una maggiore presenza di investitori terzi, che ha avuto tra i suoi principali punti di rottura l’autoproduzione. Questo elemento, l’autoproduzione, si configura come contraddizione pericolosa nel sistema portuale, che, al netto delle gravi questioni di sicurezza e equità che apre, tende a erodere il lavoro portuale a chiamata, impoverendo una voce strategica e vitale della competitività complessiva di un porto.

Proprio sul lavoro portuale è intervenuta efficacemente, sin dal suo insediamento, la Autorità di Sistema Portuale Mar Adriatico Orientale, allorquando Mario Sommariva e Zeno D’Agostino misero mano nella deprecabile condizione in cui riversava nel porto di Trieste il lavoro portuale a chiamata, ridotto alla fame. Dopo un percorso che ha richiesto molto attento e costante lavoro, si è approdati  al risultato rilevante di costituire l’Agenzia per il Lavoro Portuale del Porto di Trieste, ALPT,    LINK     , un soggetto neutrale senza scopo di lucro e senza padroni, destinato a fornire lavoro portuale temporaneo a tutte le imprese portuali e ai terminalisti. Questa operazione, che ha fatto e fa scuola a livello nazionale e internazionale, non solo ha restituito dignità e reddito a centinaia di famiglie, ma offe in modo sisitemico convenienze strategiche competitive alle imprese, permettendo la coniugazione di una efficiente gestione dei picchi con un buona amministrazione del costo del lavoro.

Considerando il valore sociale e le importanti ricadute dell’Altp, i fatti avvenuti a Trieste contro il green pass, che hanno coinvolto l’operatività del porto giuliano, aprono riflessioni su aspetti che investono tutta la portualità italiana.

Prologo del ragionamento è la popolarità che la pandemia ha fatto guadagnare alla logistica, rendendo palese per la prima volta agli occhi dei non addetti ai lavori l’importanza strategica e il valore dei porti. Questa consapevolezza collettiva si è formata velocemente, ma in un contesto di malcontento diffuso, rispecchiato dalla forte percentuale elettorale astensionistica, che ancora non trova voce e sbocco nei canali istituzionali della politica e dei principali sindacati italiani. Protesta e rabbia sociale stanno assumendo forme autonome e randagie, in cerca di bersagli attraverso cui amplificare enormemente le loro azioni, indipendentemente dai risultati.

Considerando i movimenti no green pass e no vax, c’è da dire che non sorgono dal nulla, ma sono la punta di un icerberg di protesta sociale, forte e silenziosa, vedi astensioni elettorali, che riguarda lo smantellamento complessivo del sistema sanitario pubblico, eccetto in Emilia Romagna, che ha generato la privatizzazione della prevenzione e della cura medica, con business e speculazioni di ogni tipo. La pandemia, con migliaia di morti giornalieri, elevando a fenomeno pubblico comune i calvari dei singoli malati in Italia fino ad allora relegati nella sfera delle tragedie private, ha sollevato questa iniquità profonda. Ciononostante, il tema, stritolato nei meandri del Titolo V, resta non affrontato, così come altri servizi pubblici molto problematici, in primis scuola, università e organici dell’Ispettorato del Lavoro. Questo stato di cose incrina profondamente i pilastri costituzionali dello Stato e del senso di appartenenza e di partecipazione delle persone, sacrificati in nome del taglio della spesa pubblica, cresciuta per pesanti inefficienze burocratiche e organizzative del sistema pubblico lasciato alla deriva per decenni, a uso e consumo di clientele e corruzione.

Su questo si è poi annodata l’innegabile e stridente contraddizione tra la non obbligatorietà del vaccino e la sua “obbligatorietà” nei luoghi di lavoro, innescando tensioni sociali profonde e pericolose polarizzazioni.

In tale coacervo di problematiche vitali – a cui si aggiungono problemi atavici quali disoccupazione giovanile e precarizzazione e sfruttamento del lavoro in molte attività, in un paese che ha il record scandaloso di incidenti e morti sul lavoro – un altro apice che è stato raggiunto ha riguardato il reddito di cittadinanza, che a detta dei suoi detrattori, sottrarrebbe manodopera pagata normalmente al di sotto del reddito di cittadinanza, cioè del livello minimo per non cadere nella povertà conclamata.

L’assalto alla Cgil, che ha ricordato quello alla Casa Bianca di inizio anno, e i disordini di Trieste sono gli ultimi episodi più eclatanti, di identica matrice, di quel che il paese cova da tempo.

Per quel che riguarda Trieste, la protesta ha avuto un portato non solo simbolico, ma effettivo per le pesanti conseguenze a danno diretto anche di parte degli stessi manifestanti, che segna un innalzamento del conflitto sociale, spostando il bersaglio sul cuore logistico del paese, il porto.

Una manifestazione che suona come un campanello d’allarme sulla sicurezza dei porti e dei sistemi logistici del paese, oggetto di furia sociale e calamita di infiltrazioni di ogni genere. Già ante pandemia, nella logistica come in agricoltura si era assistito a manifestazioni di protesta estreme, nate da condizioni di lavoro inaccettabili, ma infiltrate dallo stesso caporalato delle cooperative spurie, proliferate per decenni con una pacca sulla spalla delle ditte appaltanti. Anche i porti non sono stati, e continuano a non esserlo, esenti dai tentativi di introdurre sistemi analoghi, e il degrado in cui riversava il lavoro portuale a chiamata a Trieste, prima dell’intervento di D’Agostino-Sommariva, lo sottolinea.

Ma quel che oggi non può lasciare indifferenti è che le buone condizioni lavorative dei portuali giuliani che hanno manifestato, non sono state sufficienti a frenare l’ondata di cultura locale indipendentista, che ha trovato sponda nel green pass, a Trieste, città con il minor numero di vaccinati e specularmente di contagiati d’Italia.

Questi fatti denunciano quanto il porto abbia bisogno non solo di una buona governance, ma di un contesto generale di politiche territoriali mirate al progresso civile, che sviluppino il senso di responsabilità sociale verso il lavoro di imprenditori e di lavoratori, come del resto hanno mostrato i camalli genovesi, che formano il più grande pool di manodopera europeo, fortemente politicizzati ma che pur nel dissenso, non hanno partecipato alle manifestazioni giuliane.

La democrazia è innanzi tutto un esercizio di costante e paziente lavoro di connessione di pensieri diversi per il bene comune, veicolo principale di concordia, come mostrano le buone governance portuali. Ciononostante, i porti restano fragili. Le ultime manifestazioni popolari evidenziano quanto sia indispensabile dotarli di nuove forme di security, e allo stesso tempo, di contesti sociali territoriali meno arrabbiati. C’è bisogno di uno Stato capace di vedere, ascoltare e confrontarsi pazientemente sulle soluzioni, attraverso serie politiche redistributive della ricchezza, a partire dalle periferie delle città. Le riforme propedeutiche ai fondi del PNRR non dovrebbero prescindere da questo.

                                                                                                                      Giovanna Visco

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