La farmacia del mondo tra globalizzazione e pandemia. Nuove sfide logistiche in vista

Per quanto la situazione sia ancora molto confusa, la crisi generata dalla pandemia sta evidenziando che, in circostanze fuori dall’ordinario, il sistema delle interdipendenze degli approvvigionamenti mondiali concentrati in poche aree specializzate non riesce a rispondere adeguatamente, generando instabilità e insicurezza. Si profilano nuove sfide logistiche, a partire dalla gestione delle scorte e del just in time, fino a pochi mesi fa pratica privilegiata per ottimizzare le produzioni su vasta scala e ridurre gli stoccaggi, evitando di immobilizzare capitali. Ma il Covid-19 ha costretto a rallentare vertiginosamente la velocità e la regolarità dei traffici commerciali, disorganizzando la tempistica dei rifornimenti globali. Da tale crisi emergono esigenze sistemiche, che coinvolgono il ruolo delle scorte ed ipotesi di rientro in ambito nazionale o regionale delle produzioni delocalizzate di beni essenziali, riaccendendo il conflitto mai sopito tra le ragioni del business e quelle del bene comune, che coinvolge anche un settore vitale quale quello dell’industria farmaceutica.

Nel 2019, dal sito Word’s Top Export, l’import farmaceutico mondiale, in continua crescita di anno in anno (+15% negli ultimi 5 anni), ha superato 420 miliardi di dollari, realizzato per oltre il 60% da 10 paesi: Usa 19%, Germania 7%, Belgio 6%, Cina e Svizzera pari al 5%, Francia, Italia, Giappone, Paesi Bassi e Regno Unito pari al 4%.

Tutto inizia negli anni ’80, quando la concorrenza sui prezzi spinge i produttori a esternalizzare i farmaci generici (antibiotici, sedativi, antidolorifici, pillole per pressione, ecc.) nelle fabbriche asiatiche a basso costo, mantenendo in Occidente le produzioni biotecnologiche di avanguardia più redditizie, e solo parzialmente le altre.

Tale processo ha portato sulla vetta dei principali paesi esportatori di farmaci generici, l’India, presente in 200 paesi ed in tutti i mercati altamente regolamentati. Soprannominata farmacia del mondo, la sua produzione vale complessivamente 43 miliardi di dollari, di cui circa la metà destinati all’esportazione, al 10° posto della classifica Global Business Report e al 3° per volumi prodotti.

Tuttavia, analogamente a più di 50 paesi fornitori globali di componentistica e di prodotti intermedi e finali medico-farmaceutici, il governo Modi sotto l’emergenza coronavirus, lo scorso marzo aveva bloccato l’export farmaceutico per tre mesi di 14 molecole e 26 prodotti derivati, tra cui il paracetamolo e l’idrossiclorochina, un farmaco di 65 anni fa, ormai fuori brevetto, inserito dall’OMS nella lista di quelli essenziali, utilizzato per la malaria, l’artrite reumatoide, il lupus, e dal 2019 anche nel trattamento del Covid-19, sollevando preoccupazione e sconcerto. Immediata la reazione degli Stati Uniti e del presidente Trump, che non ha esitato a lanciare contro l’India chiare minacce ritorsive, che hanno avuto rapido effetto, visto che in un sol giorno il governo ha ritirato il provvedimento dietro giustificazioni umanitarie e imbarcato i primi carichi di medicine verso Usa, Cina, Italia, Iran, Spagna.

Gli Usa dall’India acquistano quasi la metà di tutto il loro import medico-farmacologico, che complessivamente supera $150 mld annui (dato FDA), e si riforniscono di idrossiclorochina da una dozzina di aziende indiane, al prezzo competitivo medio di 4 dollari per 50 compresse, rivendute sul mercato statunitense a circa 40 dollari. Con l’intento di ridurre nel tempo la dipendenza farmacologica dai rifornimenti esteri, l’amministrazione Trumpha da poco aggiudicato 354 milioni di dollari ad una start up di pubblica utilità, per la produzione in Virginia di farmaci generici e Api (Active Pharmaceutical Ingredients), avviando una politica che però non trova tutti d’accordo, per il finanziamento pubblico necessario ad abbattere i costi del lavoro e delle misure antinquinamento delle imprese, gli stessi che avevano portato alla delocalizzazione.

Prima che la catena di approvvigionamento globale fosse interrotta dal coronavirus, nei 9 mesi precedenti aprile 2020, l’India aveva esportato prodotti farmaceutici per 15,6 miliardi di dollari e importato soprattutto farmaci sfusi e Api per $5 miliardi, ma poi il quadro si è scomposto:  riduzione di aerei e navi, manodopera a casa, materie prime e prodotti intermedi in entrata tenuti 14 giorni in quarantena nei porti prima di essere autorizzati agli spostamenti interni (il 6 aprile risultavano bloccati nei porti indiani merci farmaceutiche per oltre 1 miliardo di dollari), problemi di approvvigionamento dei materiali accessori e di imballaggio.

La pandemia ha comportato un aumento dei costi di trasporto che ha fatto lievitare il prezzo degli ingredienti di base per antidolorifici, antibiotici e altre medicine di circa 30%. Come riporta Al Jazeera, analogamente a quanto accaduto per mascherine, guanti e altri generi di prima necessità, non sono mancate speculazioni, giocate sul trattenimento delle forniture per farne aumentare il prezzo: la stessa idrossiclorachina da 261 dollari al kg è passata a $1.111, facendo schizzare la il costo produzione di una compressa da 0,06 a 0,45 dollari. Contemporaneamente, si sono ridotte le forniture dall’estero necessarie alla produzione, provenienti in prevalenza dai paesi UE e dalla Cina, primo produttore ed esportatore mondiale di principi attivi farmaceutici (Api), con oltre 2.000 preparati che superano 2 milioni di tonnellate annui.

La Cina da quando si è affermata esportatore farmaceutico globale, ha ceduto all’India la produzione più tossica per l’ambiente, delle sostanze chimiche di partenza, di cui era leader, che ora importa per produrre Api, che esporta anche in India per la fabbricazione di farmaci in compresse. Il sistema di produzione farmacologica indo-cinese, fino alla pandemia, ha registrato una crescita incessante degli ordinativi mantenendo prezzi competitivi, un binomio crescita-prezzi bassi che ha causato problemi di qualità in diversi stabilimenti, diffidati o sospesi dagli organismi di controllo dei paesi importatori a mercato regolamentato.

Il mercato globale dei farmaci è dunque fortemente competitivo, con un business spesso costruito sui brevetti, che ha spinto l’UE ad emanare un nuovo regolamento che consente alle imprese europee di farmaci generici e biosimilari di produrre e stoccare per l’export prima della scadenza del brevetto locale del paese di destinazione, così da poter essere tempestivamente presenti sul mercato, come del resto fanno gli Usa da 30 anni.

Intanto l’India sta intraprendendo anche la produzione più redditizia di nuovi farmaci, che ha contribuito ad incrementare il suo import di prodotti intermedi relativi, provenienti per circa 2/3 dalla Cina e da altri paesi come Usa, Italia, Singapore, Hong Kong, Germania, Francia. Tuttavia, continua ad essere intrappolata nelle proprie contraddizioni: con un’industria farmacologica competitiva a livello globale ed un settore privato clinico tra le principali mete del turismo medico internazionale, la spesa pubblica sanitaria dell’India copre appena l’1,3% del Pil contro il 6,3% di media globale, nonostante le emergenze sanitarie che piagano la sua popolazione, tra cui circa 3 milioni di nuovi casi di tubercolosi all’anno e l’altissima mortalità infantile per malattia.

Giovanna Visco

Questo articolo è stato pubblicato da ShipMag il 25 maggio 2020

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